Da ricchi a pezzenti: viaggio nel territorio siracusano con oltre 100 mila disoccupati e un’economia al collasso

Inchiesta 
Molti giovani sono disposti a delinquere con la mafia pur di sopravvivere. La Sicilia è per antonomasia la culla della mafia e per riflesso storico dell’antimafia, dove sono i siciliani a pagare le tasse e a mantenere i politici e i mafiosi. Entrambi, per quanto le due cose possano sembrare uno l’opposto dell’altro, in realtà alla fine sono la stessa cosa. Mafia e antimafia sono le due facce della stessa medaglia.
Sono migliaia i siciliani che lavorano per la Regione Siciliana. Un’inchiesta ha svelato il mistero sui 24.500 addetti alla forestazione, circa 3.000 avrebbero sul groppone condanne penali, un migliaio per reati contro il patrimonio, in seicento per lesioni personali e omicidi colposi, in duecento per reati contro la pubblica amministrazione. Ci sono poi i condannati per incendio doloso e sappiamo come funziona. Spuntano anche i mafiosi, che sono una cinquantina mandate alla sbarra per 416 bis e tornate a lavorare come nulla fosse una volta scontata la pena.
È il fallimento dell’antimafia fatta dai professionisti. Quelli che gridano strepitano, s’indignano, manifestano e poi lasciano le cose come stanno. Tutto resta sempre uguale mentre la mafia si trasforma; e per rimanere a casa nostra, il raffronto storico è ben diverso, troviamo la disoccupazione dei giovani nella provincia di Siracusa che ha raggiunto il 45%, mentre i dati in generali sono al 37%. Su circa 410 mila abitanti 100 mila sono senza lavoro. Tale siffatta condizione sociale si aggrava e vuole che la stragrande maggioranza dei nostri giovani si trovi ad affrontare problematiche collegate all’uso dell’alcol, al fumo di cannabis, al gioco d’azzardo con le macchinette mangiasoldi e tutto il resto. Quello che manca è il lavoro; l’effetto sociale in tempi di crisi è trovare un posto di lavoro qualsiasi purché sia retribuito; tutto va bene pur di sopravvivere. Le statistiche vogliono che il 65% dei senza lavoro accetti un posto in un’attività, dove la mafia, o criminalità organizzata che dir si voglia, abbia investito per riciclare il denaro proveniente dallo spaccio della droga e il resto; quasi uno su dieci, è pronto anche a commettere reati pure gravi pur di riscattare l’inutile esistenza che pesa come un macigno sulla propria dignità, prima di uomini e poi di esseri umani.
I disoccupati e i precari dicono che quando il lavoro manca e la disperazione avanza si prende tutto quel che offre la piazza. Anche se purtroppo, il mercato è quello in nero, del malaffare. Non solo stipendio, c’è anche chi si rivolge alla malavita solo per fare la spesa, l’importante che la famiglia mangi. E qui entra in gioco del serpente, fino alla proposta di trasportare la droga e poi di spacciarla. Più del 50% dei siciliani ritiene che la malavita, bene o male, fornisca posti di lavoro. Un dato preoccupante che si riconferma essere nel comune vivere e pensare del Sud, ma anche in tante aree del Nord. Il 60% ritiene che in certe zone, dove ci sono molta disoccupazione e povertà, la criminalità organizzata ha saputo creare opportunità di lavoro. Assurdo ma vero. La politica ha fallito e rimane il punto debole della catena di un sistema in cui impera la raccomandazione. Il lavoro non è un diritto, ma uno scambio di favore: tanti voti/lavoro precario. Poi si vedrà.
Le origini della mafia sono da rintracciare all’interno del mondo rurale.
Cresciuta e sviluppatasi fino a diventare un fenomeno urbano, l’attuale nuova organizzazione globale della mafia è improntata sul modello di quella siciliana nata nel venticinquesimo secolo. La famiglia diventa il fulcro di quest’organizzazione per la scarsa fiducia della popolazione verso le autorità e i relativi sistemi legali. Ogni disputa o controversia è regolata al di fuori dei tribunali, risparmiando tempo e i soldi per le spese legali. C’è poi il fenomeno sociale della criminalità politica che è arrivata a livelli così alti da interconnettere con le nuove organizzazioni mafiose, i cosiddetti colletti bianchi. Oggi politica e malaffare sono legati tra loro, mazzette per quelli che ti spianano la strada nelle gare d’appalto, poiché non esistono più controlli preventivi e mirati sui bilanci e sugli appalti stessi e le norme di legge sono permissive, specie per i ricchi che pagano gli avvocati per tirare avanti fino alla prescrizione, mentre solo i poveri vanno a finire in carcere.
LA NOSTRA SOLA RISORSA, L’INDUSTRIA DELLA RAFFINAZIONE, MA LA CRISI DEL SETTORE BRUCIA LA SPERANZA 
Chiuse oltre quindici raffinerie in Europa: una crisi irreversibile e il conto salato da pagare. Negli ultimi dieci anni sono state chiuse in Europa ben 14 raffinerie e altre 15 stanno per chiudere i battenti in malo modo. Il settore della raffinazione in Europa è in forte crisi. Ma la situazione peggiore è in Italia che si trova ormai da diversi anni in un vicolo cieco. Tra calo delle esportazioni e riconversione degli impianti in costante perdita, l’Italia ha bisogno di una restaurazione radicale. I prodotti petroliferi italiani, oggi soffrono la concorrenza degli esportatori asiatici, che, anche a fronte di costi di trasporto maggiori, possono contare su costi di produzione, del lavoro, della tecnologia e mancanza di standard per l’ambiente, molto inferiori rispetto ai produttori italiani. Si registra così il calo delle esportazioni dei prodotti raffinati del 15%. I mercati verso cui l’Italia esportava sono stati rappresentati dai Paesi dell’Europa occidentale e dell’area mediterranea. La stagnazione della domanda rende difficile la riconquista del mercato perduto; un ruolo rilevante è la concorrenza di operatori, cinesi, russi, in prima linea sia per l’approvvigionamento di prodotti che nella costruzione di impianti in loco. Difficile immaginare un riposizionamento forte sui mercati.
Tutte le raffinerie in Italia sono a rischio di sopravvivenza e con esse tanti posti di lavoro. Proseguendo su questa strada c’è il pericolo di diventare dipendenti dalle forniture estere non solo per il petrolio e il gas, ma anche per i prodotti finiti. Conviene di più produrre fuori dall’Europa a minor prezzo e importare il prodotto finito dai Paesi che utilizzano sistemi molto più inquinanti dei nostri e con un costo del lavoro inferiore. Anche i russi che fino a pochi anni fa erano interessati al settore della raffinazione, nonostante la crisi, oggi mettono in vendita tutte le proprie raffinerie in Europa; il comparto non è più strategicamente importante.
I costi di produzione per i produttori italiani sono più elevati per effetto degli oneri all’applicazione di normative in materia di tutela dell’ambiente e della salute, a cui si devono aggiungono i costi di trasporto delle materie prime. Ad aggravare la situazione in Italia è in particolare il carico fiscale.
Dal punto di vista produttivo, insiste il grave problema delle raffinerie italiane che lavorano in media a un tasso di utilizzo del 72%, mentre negli Stati Uniti e in tanti altri paesi questo tasso è superiore al 92%. Esiste così un vantaggio nel concentrare le attività di raffinazione su un numero inferiore di raffinerie, ma utilizzarle al massimo della capacità. Riportare gli impianti alla competitività perduta, e tenere da conto dell’inquinamento sulla base delle nuove norme europee è difficile da attuare. Per non incorrere in perdite, gli impianti devono lavorare almeno al 85% % della loro capacità produttiva. E quindi i margini di raffinazione sono negativi per tutti. I costi lordi si aggirano sui 4 dollari al barile, mentre i ricavi vanno da 1,5 a 2 dollari, con perdite secche e difficile da recuperare.
La raffinazione ha finora avuto un valore strategico anche in termini di occupazione diretto e indotto di circa 550.000 posti di lavoro a livello europeo; la chiusura anche di un solo impianto è sinonimo di perdita di occupazione, prima ancora che di competitività per l’economia italiana. La strategia efficace sarebbe la riconversione degli impianti, consentendo la trasformazione in siti di stoccaggio o siti per la valorizzazione energetica dei rifiuti, ma per il momento è solo una pazza idea.
C’è poi il problema della chimica sostenibile e del possibile sviluppo nell’applicazione di prodotti, processi e soluzioni tecnologiche che portino a un miglioramento della salute dei lavoratori e dei consumatori, oltre che dell’impatto ambientale e una riduzione del consumo di fonti energetiche e di materie prime non rinnovabili. La chimica sostenibile è il futuro, sia per la parte connessa a rendere più efficienti processi e prodotti; un campo su cui si stanno confrontando i principali Paesi europei attraverso politiche industriali miranti a creare eccellenze nazionali. In Sicilia la chimica è rappresentata a Ragusa con il polietilene, a Priolo cracking, oleofine, intermedi e aromatici. Ma nel giro di 5/6 anni il comparto petrolchimico europeo deve necessariamente rivoluzionarsi o è destinato a soccombere, ma rimane aperta la grave questione delle bonifiche.
La realtà non consente il rilancio dell’economia e quindi del lavoro.
La situazione in provincia di Siracusa parla di una disoccupazione generale al 24%, quella giovanile 62%, netta al 38%, povertà assoluta 20% della popolazione residente e quella relativa è al 26%; oltre 100.000 persone senza lavoro. I dati negativi con le opportunità del territorio: porto di Augusta, bonifiche industriali, investimenti nel polo industriale, potenziamento infrastrutture e mobilità sostenibile, risorse su turismo, agricoltura e agroindustria, riqualificazione delle periferie e rimedi alle emergenze abitative.
Un siracusano che ha un lavoro mediamente percepisce 1.250 euro, praticamente la sopravvivenza. A testimoniarlo è uno studio dell’Osservatorio statistico dei consulenti del lavoro su numeri Istat.
Siracusa quinta provincia, nella classifica dell’Italia, per tasso di disoccupazione dai 15 anni ai 64 anni. Viceversa, nella classifica che vede le regioni italiane virtuose nel campo lavorativo, la provincia aretusea sprofonda al 96esimo posto su 110.
 
SIRACUSA, L’ECONOMIA, LA STORIA E LA POLITICA
Una storia per tutte. Graziano Verzotto faceva parte degli uomini politici d’altri tempi e di altra levatura, insieme a Santi Nicita e tanti altri. In quel tempo Siracusa aveva la squadra di calcio in serie C; il Polo Petrolchimico più grande d’Europa che contava ben 24 mila addetti tra diretto e indotto. Con la presidenza dell’Ente Minerario Siciliano, Graziano Verzotto, che arrivò a Siracusa come commissario della DC ai tempi di Amintore Fanfani segretario, riuscì a mettere in moto nel territorio siracusano due aziende che svilupparono al tempo oltre settecento dipendenti sparsi in tutti i cantieri d’Italia: la Gecomeccanica di Priolo Gargallo e la Plastionica, con uno stabilimento a Villarosa Enna e uno ad Augusta. Società controllate dall’Ems e inserite nel sistema industriale siciliano, insieme alla Sochimisi, alla Chimica del Mediterraneo, l’Elitaliana, Italkali e tante ancora.
Un progetto che vedeva l’impegno della classe politica siciliana e di cui Siracusa era in prima fila. Insomma, aveva un peso nelle decisioni. L’operazione industriale per la Sicilia, aveva creato l’Ems, l’Azasi e l’Espi. Un progetto ambizioso che voleva il riscatto dei siciliani; ma lungo la strada, le tre realtà economiche nate per lo sviluppo settoriale industriale regionale, trovarono gli ostacoli di natura politica della segreteria nazionale della DC e di riflesso del Governo nazionale, che si opponeva ad una strategia politica-economica di lunga durata. Per le aziende che erano nate per l’estrazione del salgemma e dello zolfo, la globalizzazione costrinse il governo regionale a ridurre la produzione, fino alla messa in crisi dell’intera filiera, con la messa in liquidazione della aziende di riferimento.
Rimase il settore metalmeccanico, con la Gecomeccanica Spa e la Gecocantieri Spa. Con un progetto che prevedeva la realizzazione della base di Punta Cugno per la costruzione delle piattaforme petrolifere off-schore, e un moderno e funzionale cantiere navale nel sito militare del vecchio Idroscalo nella rada di Augusta, con una commessa che prevedeva la costruzione nella prima trance ben settanta pescherecci d’altura, commissionati dal governo di Cuba al comando di Fidel Castro. Ma l’intervento degli Stati Uniti blocco la commessa attraverso le pressioni a quello italiano. Per non creare un incidente diplomatico, Graziano Verzotto dovette rinunciare alla miliardaria commessa e al cantiere navale che fu ceduto ad altri concessionari per attività minori. Un progetto che prevedeva l’alaggio e il varo dei mezzi nautici attraverso, allora moderni, “ascensori”, e una forza lavoro di circa trecento addetti a regime per un periodo di cinque anni. Nel progetto c’era già inserita e funzionante una nave officina per le riparazioni in alto mare.
Eravamo un territorio ricco. Ma ora cosa siamo?
Concetto Alota

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