Si scendono quarantuno gradini (cercando di sopravvivere ai miasmi urinali che aromatizzano tutte le scalette che dal livello della città portano al fiume) e si è all’altro mondo. Un mondo che vive a una quindicina di metri dalla cima dei muraglioni (brutti ma indispensabili, altrimenti ogni inverno saremmo sott’acqua).
Questo mondo è un’isola, che si chiama, non sorprendentemente, Isola Tiberina. Eccola com’era ai tempi dell’antica Roma: una nave di marmo che seguiva con prua, poppa e fiancate scolpite nel travertino la forma di quello che in origine doveva essere un banco di fango, usato dai primi burini che ci abitavano per passare dall’altra parte.
Crolli, distruzioni, ricostruzioni; adesso c’è il grande ospedale Fatebenefratelli, la chiesa di San Bartolomeo e, soprattutto, il ristorante della Sora Lella, infilato nella medievale torre Caetani, dalla quale sporge sul greto del fiume uno di quei casottini anticamente chiamati recessi, da cui precipitavano lungo una canna senza sifone gli scarti della digestione dei castellani.
In questo caso, dato che ci pare (azzardiamo per amore del brivido, ma non ne siamo affatto sicuri) che detto recesso possa trovarsi sul retro di detta famosa trattoria romanesca non resistiamo alla tentazione di immaginare (sempre sperando che la realtà sia diversa) quale compost di fagioli con le cotiche o di coda alla vaccinara possa, nell’ora della digestione, scorrere lungo il tubo qui fotografato piombando dritto nelle acque del biondo Tevere.
Intendiamoci, l’isola ha anche il suo fascino botanico che, mescolato con l’altrettanto affascinante richiamo storico delle sue pietre e sonorizzato dal mugghiare potente delle acque le dà un tono da documentario naturalistico-culturale. Roba da BBC.
Come sappiamo noi che invece di intrupparci su qualche spiaggia rimaniamo in città, d’estate l’Isola Tiberina diventa il centro di tante manifestazioni: concerti, cinema, friggitorie; insomma una quantità di faccende divertenti e istruttive, le quali, a fine ciclo si lasciano dietro strutture che, se noi che rimaniamo in città fossimo persone civili, durerebbero fino alla stagione successiva.
Invece, siccome civili proprio non lo siamo, tutto quello che è pubblico viene vandalizzato e rimane, rotto e scrostato, ad arrugginire durante l’inverno.
Ma per fortuna c’è qualcuno, nel nostro caso un ignoto pittore, che a inizio primavera è stato sorpreso a tentare (e a riuscirci) di recuperare una serie di pannelli scassati con l’uso paziente di pennelli e vernice.
Ne è uscita una serie di quadretti floreali che noi abbiamo ammirato come meritavano.
Però sul retro di uno di questi il nostro artista, probabilmente stremato dalla sua missione di civiltà non è riuscito a trattenersi e ha lasciato questa breve ma sentita dichiarazione.
Stefano Torossi