Il Cavalier Serpente N° 571 – Franz Schubert

Franz Peter Schubert nasce povero (e muore povero a soli 31 anni) ma in una famiglia civile e nel paradiso della musica: Vienna.

Dodicesimo di 14 figli, di cui solo 5 diventano adulti; a quel tempo tanti bambini morivano prima di crescere, fra l’indifferenza di tutti: considerati poco più che gattini da rimpiazzare con il prossimo parto che spesso andava male, e allora si perdeva il bambino e anche la mamma.

Il padre è maestro di scuola in un’epoca in cui l’insegnamento della musica è obbligatorio in tutte le scuole dell’Austria.

Franz impara presto pianoforte, violino, organo e viola. A casa suonano tutti insieme, in quartetto o in trio.

E’ tanto precoce che uno dei suoi maestri dichiara: “Ogni volta che cerco di insegnargli qualcosa di nuovo, lui la sa già”.

Entra nel Regio Imperiale Convitto, esaminato e ammesso da Antonio Salieri, all’epoca ancora perseguitato dalle maldicenze sulla morte di Mozart, ed è così bravo che presto riceve un encomio solenne dalla segreteria dell’imperatore.

Al convitto si mangia poco e male e si dorme al freddo, ma ogni sera i ragazzi suonano una sinfonia e un paio di ouverture. D’estate i vicini si affollano sotto le finestre aperte per ascoltarli.

Conosce e corteggia Therese; il matrimonio non si fa perché lui è troppo povero. La ragazza sposa un panettiere non certo ricco ma con un mestiere, non come Schubert.

Dal 1814 al ‘16 fa anche lui il maestro di scuola, soprattutto per evitare il servizio militare, da cui la benemerita categoria è esentata, ma rimane povero come prima.

Sa scrivere lettere amabili e comincia presto a manifestare il suo carattere allegro e compagnone e la sua inclinazione per il bicchiere e il buon cibo.

Organizza spesso le “schubertiadi”, riunioni a base di bevute, musica e lettura di poesie fra amici, tutti maschi, di cui alcuni hanno fama di omosessuali: tolleranti e tollerati.

E’ festaiolo, beve molto ed è sempre in cerca di ragazze. Che lo evitano perché è malvestito, sporco e puzza.

E’ basso, tozzo, viso rotondo, naso largo, labbra tumide, mani grosse e dita corte. Lo chiamano “Schwimmerl”, funghetto.

Tira avanti con l’aiuto di un gruppo di amici che gli pagano la stampa della musica, (lui non è proprio capace di proporsi agli editori) e che poi gli pagheranno anche il funerale.

Nel 1818 è assunto per insegnare pianoforte alle due figlie del conte Esterhazy, a Zseliz. Non abita al castello ma nell’alloggio della servitù: “un posto tranquillo, tranne per quaranta oche rumorose, ma con una domestica molto graziosa”.

Probabilmente una delle poche avventure della sua vita, magari concausa della sifilide che Franz si prende fra le quaranta oche schiamazzanti o in uno dei bordelli che frequenta.

Fatto sta che ne muore, nel 1828.

Ha composto moltissimo. E’ considerato il maestro indiscusso dei lieder. Ne ha scritti seicento, molti su testi di Goethe, il quale peraltro ignorava regolarmente gli spartiti che Schubert gli mandava. Melodie che cantano l’amore deluso, disperato, appassionato, inespresso, focoso, struggente, ingenuo, impossibile.

Da tutti apprezzate, anche se con qualche dissenso, per esempio di Scriabin che giudicava i suoi pezzi “roba buona per essere pestata sui pianoforti dalle signorine”.

Ha scritto sei opere, nessuna eseguita o pubblicata. Ce n’è una che avrebbe potuto avere successo: “Claudine von Villabella”, se non che ne rimane solo il primo atto perché il secondo e il terzo furono usati dai domestici del suo amico Hottenbrenner, che custodiva l’unica copia del manoscritto, per accendere il fuoco nel camino.

Di lui Beethoven disse: “In questo ragazzo c’è la fiamma divina”; e lui lo venerò: fu addirittura fra quelli che ne portarono la bara al funerale.

Ci rimane la cronaca di un suo disastroso incontro, proprio con Beethoven, nel 1822.

“Accompagnato da Diabelli era andato a trovarlo portandogli una copia delle Variazioni per pianoforte a quattro mani che gli aveva dedicato. Timido e senza parole, davanti al grand’uomo si trovò in difficoltà. Quando Beethoven gli chiese di scrivere personalmente le risposte alle sue domande (il maestro era già sordo e corrispondeva con gli altri attraverso un taccuino), la sua mano paralizzata rifiutò di muoversi. Intanto Beethoven aveva dato un’occhiata alle Variazioni e, scoperta un’inesattezza, la segnalò con garbo al giovane, aggiungendo che si trattava di piccola cosa.

Schubert perse completamente il controllo, si precipitò fuori e, come un pazzo, cominciò a prendersi a pugni in testa e a insultarsi”.

Mai più trovò il coraggio di ripresentarsi al suo mito.

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