Quello che da grande diventerà un seduttore seriale, un guidatore sconsiderato, un immobiliarista compulsivo, un cacciatore convinto, un bravo musicista e, purtroppo per lui, un fumatore accanito, nasce, sesto di nove fratelli, il 22 dicembre 1858, a Lucca e lo battezzano con i nomi del trisnonno, del bisnonno, del nonno e del padre, da quattro generazioni maestri di cappella del Duomo: Giacomo, Antonio, Domenico, Michele Puccini.
Il padre gli muore a cinque anni; la famiglia diventa povera e il ragazzo viene mandato a studiare dallo zio che lo giudica poco dotato e molto indisciplinato. Prosegue al seminario della Cattedrale dove consegue questo brillante giudizio: “Entra in classe solo per consumare i pantaloni sulla sedia, non presta la minima attenzione a nessun argomento e continua a tamburellare sul banco come fosse un pianoforte”.
Intanto però il suo talento comincia a fare capolino, così che a quattordici anni già contribuisce alle spese di casa suonando l’organo in chiesa e facendo il pianista di piano bar al Caffè Caselli.
La sua fama di ragazzaccio complica i tentativi della madre per fargli ottenere dal conservatorio di Milano, considerato fra i migliori dell’epoca, una borsa di studio, che comunque alla fine gli viene concessa (parziale) dalla regina Margherita.
Ci entra, diventa allievo di Amilcare Ponchielli e, cosa ancora più importante, amico, anzi amicissimo di Pietro Mascagni, con cui divide la posizione di sostenitore di Wagner nel periodo in cui era in corso la guerra fra wagneriani e verdiani.
Grazie a un buon rapporto con l’editore Ricordi, una buona collaborazione con i librettisti Illica e Giacosa, e soprattutto alla sua miracolosa vena, gli parte una carriera brillantissima di operista. Quattro titoli: La Boheme, Tosca, Madama Butterfly (solenne fiasco alla prima alla Scala, riscattato dal successo immediatamente consecutivo – sembra una strada obbligata per molti capolavori) e Turandot (quest’ultima troncata da un cancro alla gola che uccide l’autore, fumatore accanito, prima di finirla). Non serve altro per l’immortalità.
Noi possiamo aggiungere, tanto per sorridere, che, come altri artisti famosi, anche lui cercò di collaborare con D’Annunzio e di farne il suo librettista. Niente da fare: come in tutti i tentativi precedenti, anche qui l’incontro fra prime donne non funzionò.
Malgrado l’universale successo della musica di Puccini (da un certo momento in poi, ogni stagione di ogni teatro di ogni città importante del mondo ha almeno una sua opera in cartellone), c’è naturalmente uno sciocco, studioso di musica antica, tale Fausto Torrefranca, che pensa bene di pubblicare un polemico libello in cui definisce la produzione di Puccini “l’estrema, spregevole, cinica e commerciale espressione dello stato di corruzione della cultura musicale italiana”.
Nei suoi quattro capolavori le protagoniste sono donne, donne condannate a perdere la felicità e spesso anche la vita, per un uomo. E quell’uomo, quel seduttore seriale è lui, Giacomo, cresciuto in una famiglia con madre amatissima e cinque sorelle, che comincia presto rubando a un droghiere lucchese la moglie Elvira, con cui poi rimarrà tutta la vita, dannandosi e dannandola.
La donna è senz’altro una vittima di Giacomo che la tradisce in continuazione dove e come può, ma dev’essere stata anche una formidabile rompiscatole, prepotente, gelosissima, possessiva, e per di più del tutto insensibile al genio di suo marito.
“Tu metti dello scherno quando io pronuncio la parola arte. E’ questo che mi ha sempre offeso e che mi offende”, le scrive lui nel 1915. Eppure le rimane attaccato; addirittura, secondo il suo studioso Rugarli, le protagoniste delle sue opere si riassumono e si rispecchiano in lei, Elvira, l’unica figura femminile capace di ispirarlo.
La dannazione è nel fatto che Giacomo non riesce a star tranquillo e non smette di insidiare le domestiche e le commesse, le sartine e le contesse, le soprano e le pianiste, con scandali in serie, tanto che perfino il suo editore, Giulio Ricordi, si vede costretto a scrivergli una lettera in cui lo invita a concentrarsi sulla musica e a lasciar perdere le gonnelle.
Finché succede il fattaccio: la servetta bambina Dora Manfredi, assunta a 14 anni e diventata presto una bella ragazza, naturalmente riceve anche lei le attenzioni del padrone di casa. Come forse nessuno si sarebbe aspettato, qualche tempo dopo, presa a schiaffi, insultata in pubblico e in tutti i modi perseguitata dalla padrona che le rimprovera di essere la tentatrice di quel diavolaccio di suo marito e la causa delle loro liti, il 23 gennaio 1909 si suicida.
Dramma e problemi giudiziari per la coppia ormai famosa. Alla fine, per 12.000 lire i familiari della ragazza accettano di chiudere la causa, però lo scandalo rimane (ma non impedisce al nostro seduttore di avere, a quanto si dice, una storia anche con una cugina della povera morta).
L’immobiliarista compulsivo aspetta solo che arrivino i primi diritti d’autore per abbandonare gli appartamentini in affitto dive ha abitato fino a quel momento.
Come e dove dev’essere la sua casa ideale lo spiega lui stesso in una enfatica e immaginifica lettera a Ricordi: “Sono stufo di Parigi! Odio i selciati! Odio i palazzi! Anelo il bosco olezzante; anelo il libero ondeggiare del ventre mio in largo calzone; anelo il vento che libero mi giunge dal mare; ne assaporo con le nari dilatate il salso iodico…” e così via dannunzieggiando.
In campagna, quindi, possibilmente vicino al mare. E allora, appena arrivato il primo successo di Manon Lescaut, compra una villa a Chiatri, fra Lucca e la Versilia. Il problema è Elvira che la trova troppo lontana dalla città.
Traslocano presto a Torre del Lago, vicino a Viareggio, dove si fa costruire la magnifica, amatissima, definitiva villa, che lui descrive così: “Paradiso, eden, reggia. Abitanti centoventi, paese tranquillo, con macchia popolata di daini, cinghiali, lepri, fagiani. Tanto gli piace quel posto che si dichiara affetto da torrelaghite acuta. Qui compone tutte le sue opere e qui è sepolto.
Poi si sposta per un periodo a Uzzano e a Pescia dove abita a Villa Orsi Bertolini e dove diventa presidente onorario della Società Venatoria della Valdinievole, ma poi torna a casa.
Nel 1919 molla, provvisoriamente, Torre del Lago, infastidito da un vicino impianto per l’estrazione della torba e va a vivere in una vecchia torre di avvistamento spagnola vicina a Orbetello, la Torre della Tagliata, diventata poi Torre Puccini, ma poi torna a casa
Per qualche anno ha pure una casa di villeggiatura a Boscolungo Abetone, e naturalmente (anche se odia la città, proprio non ne può fare a meno) un sontuoso appartamento a Milano, ma torna sempre a casa.
Le automobili. Debutta con una De Dion–Buton 5 CV con la quale prende dal Comune di Viareggio una storica multa per eccesso di velocità nel 1902. Nel 1903, crash! la sua Clement–Bayard 11 CV finisce in un fosso. I passeggeri sono salvati dall’intervento di un medico che abita vicino al luogo dell’incidente, ma Puccini si rompe una gamba e si acciacca tutto.
Poi è il turno di una Isotta Fraschini e di diverse Fiat.
Però gli serve un mezzo per le sue battute di caccia su terreni difficili e allora ordina alla neonata Lancia quello che è probabilmente il primo fuoristrada italiano: telaio rinforzato, ruote scolpite, che gli costa la folle cifra di 35.000 lire, ma a lui non importa: ormai i quattrini gli entrano in cassa a fiotti.
L’ultima è una Lambda, con la quale guida da Torre del Lago alla stazione di Pisa per prendere il treno, il suo ultimo treno, per Bruxelles.
E’ il 1924, cancro alla gola. Lo hanno convinto a operarsi. Tre ore in sala operatoria all’Istituto del Radium con l’inserimento di sette aghi di platino irradiato. L’intervento, come si dice in questi casi, riesce perfettamente, ma il paziente, il fumatore accanito, quattro giorni dopo muore.