Un romanzo criminale chiamato Sistema Siracusa iniziato 16 anni fa

IL “Sistema Siracusa” è da considerare un romanzo criminale tutto siracusano che nasce nel 2003 con l’inchiesta denominata “Mare Rosso”. È la madre di tutte le battaglie che da ben 16 anni non lascia spazio alle regole civile, al corso della giustizia degli uomini all’interno del tribunale di Siracusa, nella politica in favore degli affari sporchi. E mentre la partenza assume i contorni di una lotta tra gruppi, la verità, oggi a carte scoperte, conferma, come in una fiaba di onesti e malvagi, che si tratta di un gruppo di buoni e uno di cattivi; questi ultimi hanno approfittato del potere temporale detenuto, mentre i primi volevano solo garantire i diritti della libertà, della democrazia, del semplice vivere e della giustizia. Ma anche dopo le ultime inchieste ancora in corso di ben 5 Procure della Repubblica, la verità non è stata svelata del tutto. Rimangono tante, troppe, zone d’ombra ancora da chiarire. E in proposito negli ambienti giudiziari della capitale si parlerebbe di una possibile seria di tronconi d’indagini suppletive ancora in corso.

Lo spartiacque e la prova provata dell’avvelenamento della terra e del mare, così come dell’ambiente nel palazzo di giustizia di Siracusa, l’inchiesta giudiziaria nata per l’errore di un tecnico che voleva pulire con dell’acido la condotta metallica da dove il mercurio proveniente dall’impianto Cloro Soda di proprietà dell’Eni era scaricato in mare che diventò di colore rosso a causa della ruggine che si scioglieva e per questo denominata, “Mare Rosso”.

Dapprima tutto appare come la scoperta, la liberazione degli “inquinatori” che da mezzo secolo erano riusciti a dribblare cittadini e istituzioni, magistratura compresa per la mancanza delle prove. Un impegno notevole per l’Ufficio del pubblico ministero della Procura di Siracusa e per gli investigatori della guardia di finanza che portarono a termine l’inchiesta perfetta, senza pieghe e tante prove schiaccianti. E tutto questo, come dirà a caldo nella conferenza stampa il procuratore capo di allora, Roberto Campisi: “…con grande disprezzo della vita umana nello smaltimento dei rifiuti con tanta arroganza e un’inaccettabile logica”. Tutto comincia nel mese di gennaio del 2003 quando scattò l’operazione, definita una delle più clamorose di mezza Europa, nel triangolo industriale di Priolo, Augusta, Melilli, denominata “Mare Rosso”; portata a termine magistralmente dalla Guardia di finanza al comando dell’allora colonello Giovanni Monterosso, coordinata dal procuratore capo della Repubblica di Siracusa del tempo Roberto Campisi e condotta dal pm Maurizio Musco. Furono arrestate diciassette persone tra dirigenti e dipendenti dello stabilimento ex Enichem, che diventa Syndial, tra i quali il precedente e l’allora direttore, l’ex vicedirettore e i responsabili di numerosi settori aziendali, insieme a un funzionario della Provincia regionale di Siracusa preposto al controllo della gestione dei rifiuti speciali prodotti nell’area industriale.

Il principale capo d’imputazione contestato agli accusati dalla Procura della Repubblica di Siracusa il delitto ambientale previsto dall’articolo 53 bis del Decreto Ronchi, oggi art. 260 del Codice ambientale, per aver costituito una “associazione per delinquere finalizzata al traffico illecito d’ingenti quantità di rifiuti pericolosi contenenti mercurio”. Secondo l’accusa il mercurio era scaricato nei tombini di una vecchia condotte di raccolta delle acque piovane e da lì finiva in mare. Un’altra via per liberarsi illegalmente dei rifiuti, secondo gli inquirenti, era quella della falsa classificazione e dei falsi certificati di analisi: in questo caso lo smaltimento avveniva in discariche autorizzate, ma non idonee a raccogliere quel genere di rifiuti che, per la cronaca, sono ancora lì giacenti. L’indagine è stata resa possibile grazie anche alle intercettazioni telefoniche e ambientali compiute anche nei locali all’interno del petrolchimico. Dopo il sequestro giudiziario e un lungo fermo, l’impianto incriminato denominato CS – Cloro Soda – ripartì con una sola delle tre linee per essere poi fermato definitivamente nel novembre 2005: troppo inquinante, ma è grave il fatto di aver tentato di farlo continuare nella sua corsa criminale che non si può davvero sopportare. Inquinare, sapendo di avvelenare la gente.

Il sospetto che qualcosa era cambiata nasce quando nel frattempo a seguito di un altro filone d’indagini a carico della vecchia Montedison, proprietaria dell’impianto Cloro Soda che, a leggere alcuni documenti segreti (?) ritrovati all’interno degli archivi della stessa società, dal 1958 al 1980 avrebbe scaricato in mare oltre 500 tonnellate di mercurio (ma in realtà sono molto di più e non quantificabili). Per la Procura di Siracusa la scoperta bastò a far decadere buona parte delle accuse ai vertici dell’Enichem di quell’indagine problematica denominata “Mare Rosso”; in particolare l’associazione per delinquere, l’avvelenamento doloso del mare e del pesce, le lesioni personali per le malformazioni neonatali e altro ancora. Restava solo il traffico illecito dei rifiuti. Così la decisione del pm di derubricare il reato.

I vertici dell’Enichem sotto la pressione giudiziaria, nonostante fosse caduta l’accusa delle lesioni per le malformazioni, decisero di corrispondere alle 101 famiglie dei bambini malformati, e alle donne che avevano preferito abortire prima della nascita di un figlio destinato a nascere malformato, un rimborso variabile in base alla gravità della malformazione, tra i quindici mila e un milione di euro, per un totale di ben 11 milioni di euro più le spese legali. Un caso unico, dove una società gravemente accusata, poi prosciolta, decide di risarcire le vittime di un inquinamento senza alcuna richiesta da parte dei danneggiati.

Quando il destino s’innesca con gli interessi e la politica. Secondo qualcuno nelle tematiche legate al caso Enichem-mercurio si troverebbero i primi semi della discordia di alcuni fatti sfociati nel Palazzo di Giustizia di Siracusa e che portarono alla fine ai filone d’indagine “Veleni in Procura” e “Attacco alla Procura”.

Il ricordo ritorna all’inchiesta Mare Rosso, quando di colpo è l’avvocato Piero Amara a essere nominato legale dell’Eni mettendo “da parte” i colleghi dello “Studio riunito Grasso” di Catania; infatti, fino allora è l’avvocato Francesco Favi che porta avanti la difesa dell’Eni nell’inchiesta Mare Rosso, ma di colpo è estromesso senza alcuna motivazione logica, diventando così l’avvocato Piero Amara l’unico attore e regista della scena di una storia senza fine, che si occupò anche del pagamento dei danni subiti verso le malformazioni e gli aborti a ben 101 famiglie. Da qui i famosi “Veleni in Procura” e il successivo fascicolo “Attacco alla Procura” e la storia che segue fino ai nostri giorni. Tutto si conforma chiudendo il cerchio dei sospetti con alcune battute “sorde” fatte da alcuni investigatori che si erano recati durante le fasi delle indagini a Milano nella sede dell’Eni e che da quel momento si trincerano in un silenzio ingiustificato fino a quel momento “magico”, poiché le indagini si erano chiuse.

E ancora. Nel settembre del 2012, con una Cnr, comunicazione di notizia reato, un’informativa redatta dai carabinieri della Sezione investigativa presso la Procura della Repubblica di Siracusa, prendeva corpo un fascicolo denominato “Attacco alla Procura”; un’inchiesta giudiziaria molto delicata e a tratti inquietante. Indagini, che erano iniziate nel 2011, per fatti collegati e scaturiti con il fascicolo denominato “Veleni in Procura”.

Una dozzina tra politici, deputati e senatori, giornalisti, liberi professionisti, oltre a diverse persone di varia estrazione professionale, finiscono sotto l’attenzione della magistratura inquirente e denunciati a piede libero per associazione per delinquere alla Procura di Messina perché coinvolti anche dei magistrati; violenza e minaccia finalizzata nei confronti di un corpo giudiziario, calunnia, diffamazione a mezzo stampa, rivelazioni di segreti d’ufficio, corruzione in atti giudiziari, con un fascicolo denominato, “Attacco alla Procura”. Tanti amici degli amici, editori e giornalisti, insieme a circa 130 persone coinvolte nell’indagine a vario titolo, tutte persone informate dei fatti, o forse è giusto dire, in certe circostanze e il più delle volte, “tirati in ballo a loro insaputa”.

 Altra prospettiva della Storia in cui sono gli industriali ad essere favoriti anche se in maniera indiretta.

La giustizia penale non fu la sola a occuparsi del triangolo petrolchimico Priolo, Melilli, Augusta. Già la legge 426/98, prima delle varie inchieste aveva dichiarato la rada di Augusta e il territorio del Petrolchimico siracusano “Sito d’interesse nazionale ai fini di bonifica” (SIN Priolo). Restava da capire, però, a chi spettava sborsare i costi necessari per bonificare il territorio e il mare di tutta quell’enorme quantità di veleni. Malformazioni a parte, infatti, l’inquinamento rimane e tutte le società del petrolchimico siracusano vi hanno contribuito notevolmente in mezzo secolo d’industrializzazione selvaggia. Lo Stato voleva fargli pagare il conto salato, ma trova un’opposizione dura e basata sul principio: “poiché non è chiaro quanto ogni società ha inquinato, non si può stabilire in che modo spartire gli oneri della bonifica” e buonanotte ai suonatori. L’allora Ministro per l’Ambiente, la siracusana Stefania Prestigiacomo, aveva trovato un’altra soluzione pur di fare le bonifiche anche se una parte a carico di Pantalone. Siccome hanno inquinato tutti, paghino tutti i danni. Cioè una buona parte lo Stato e la rimanente somma le industrie, mettendo a disposizione nell’ottobre 2008, la somma 770 milioni di euro di denaro pubblico. La richiesta di pronunciamento della Corte di Giustizia europea, fatta dal Tar Sicilia in merito ai ricorsi di Erg Raffinerie Mediterranee, Eni/Polimeri Europa ed Eni/Syndial, analoghi a quelli fatti prima di Dow e Sasol, è precedente alla decisione del Ministero di far pagare la spesa sia alle industrie, sia ala collettività, quindi non fu presa in considerazione e ancora una volta buonanotte ai musicanti.

C’è da chiedersi se mai le bonifiche si faranno, visto che c’è un nuovo problema. Chi tira fuori i soldi; quindi non è detto che si possano fare anche con i finanziamenti aperti da parte dell’Europa perché il danno è enorme. Il dubbio sarebbe stato insinuato dalle stesse società che in origine avrebbero dovuto pagare per ripulire il fondale della Rada di Augusta. La risposta, con questi lustri di luna, è simile a quella scritta nelle cartelle dei condannati all’ergastolo alla voce fine pena: mai.

Il problema. Scrivono i giudici amministrativi, è che sul fondo del mare c’è tanto di quel mercurio che se si prova a rimuoverlo, si rischia di rimetterlo in circolo e spargerlo ancora di più a causa delle correnti. Fu questa la motivazione tecnica giuridica dei magistrati del Tar chiamati in causa. La soluzione, secondo questa teoria, sarebbe più deleteria del male stesso. La cosa molto interessante, che si creda, oppure no, l’ipotesi del rimescolamento, è che il Tar ci ha creduto davvero; nella sentenza 1254 del 20 luglio 2007 si legge che la tipologia e le modalità degli interventi come imposti dal Ministero, sarebbero affidate a tecniche non efficienti, non efficaci e/o comunque irrealizzabili e come tali anche pericolosi per l’ambiente e per la salute umana. Ma non è proprio così. Peccato che il progetto del Rigassificatore nell’ambito della rada di Augusta non sia andato in porto; sarebbe stato un modo per scoprire, durante il necessario dragaggio per realizzarlo, in quella parte della Rada di Augusta dove sono ancora depositati i veleni nei fondali marini di quello specchio di mare dall’apparenza pulita, dove giace invece una montagna di veleni di be 18 milioni di metri cubi che sarebbero venuti a galla, e far capire così a tutti la vera portata del danno che hanno provocato le industrie in più di mezzo secolo d’inquinamento selvaggio, di traccheggi politici e di giochetti giudiziari in danno alla vita umana, alla flora, alla fauna e all’Ambiente in generale.

I segreti. Tutti hanno taciuto che la rada di Augusta fu dragata diverse volte: negli Anni Settanta in maniera totale in occasione della crisi del Canal di Suez; per far entrare nel porto megarese le super petroliere sono state scavate i fondale a quota meno 22, e poi negli Anni Novanta altre volte eliminare degli scranni rocciosi e per fare un favore alle industrie dragando a ridosso dei rispettivi pontili di Esso e Agip, oltre ad abbassare i fondali nei pressi dell’imboccatura di Scirocco, su richiesta, formalmente, fatta dai Piloti del porto e per i lavori della nuova Darsena. I fanghi dragati misti a idrocarburi, veleni d’ogni genere e natura sommarono (stimati al ribasso) oltre 85 milioni di metri cubi nel totale che furono smaltiti a poche miglia dall’imboccatura principale della rada di Augusta, oltre agli oltre 18 milioni ancora nei fondali del porto megarese, per un totale tra dentro e fuori la rada di circa 120 milioni di metri cubi. Questa è la Storia, quella vera. Con quest’articolo si può dire che solo ora viene fuori la verità; alla luce il vero o scandalo dell’inquinamento selvaggio nel mare circostante il territorio del petrolchimico siracusano, e mentre le discariche a terra insistono nel territorio tra Melilli, Priolo, Augusta e Villasmundo, che bene o male si può quantificare, oltre le abusive che sono circa un centinaio, ci troviamo di fronte, e a fatto compito, ad uno dei maggiori disastri ambientali non nucleari d’Europa.

Per oltre 70anni i colossi della chimica e della raffinazione, hanno seppellito veleni di ogni tipo, residui pericolosissimi della lavorazione industriale. Tonnellate di queste scorie contaminate sono state sversate direttamente nel mare della rada di Augusta e che una volta smaltito nel mare aperto si trovano tracce fino a Portopalo di Capo Passero. Poi ci sono i pozzi dell’acqua potabile contaminati e la falda acquifera inquinata, ma in questo caso nessuno pagherà. I relativi processi andranno in prescrizione matematica o con condanne irrisorie. Centinaia di migliaia di persone che quell’acqua avvelenata l’hanno usata per cucinare e bevuta regolarmente, e per un tempo enorme, vivono nell’angoscia di avere contratto qualche grave patologia. Ma per la gravità dei fatti accertati rimane acclarato, anche per l’avvelenamento aggravato, che è caduto o cadrà in prescrizione.
Sono stati analizzati più volte i referti, le schede di dimissioni ospedaliere e i certificati di morte, ma la situazione che ne emerge è di un’approssimazione ad orologeria da parte delle istituzioni in connubio con le lobby delle industrie. Bambini e adulti morti di tumore, rifiuti tossici dappertutto, cittadini che vogliono giustizia per i veleni nell’aria, ma non ricevono nemmeno il sostegno dei primi cittadini, dei sindaci dei comuni industriali, dove più di uno sono dipendenti delle raffinerie e altri compari di “fedeltà”; è questa una terra martoriata da incuria, abbandono e degrado. Ancora oggi si registra una forte contrapposizione tra i soggetti che a vario titolo, e non sempre sostenibile, dicono la loro, e non mancano le perplessità e i nodi ancora tutti da sciogliere. Un diritto per le popolazioni delle zone è di poter contare su una vita normale; ma questo qui, nell’inferno sulla terra, è negato e non sarà possibile. Nella regola della corruzione tra gli uomini, vince la potenza del dio denaro e non l’interesse generale.

Concetto Alota

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