L’accostamento delle sembianze umane a quelle animali è presente nella letteratura fin dalla notte dei tempi, ma mentre nella mitologia o nelle favole sono sovente i secondi a trasformarsi nei primi (si pensi a “Il principe ranocchio”), nelle opere degli ultimi secoli è spesso raccontato un fenomeno opposto.
Questo processo è stato usato non di rado per disumanizzare o, al contrario, per denunciare le demonizzazioni in corso nelle società in cui vivevano gli autori. Fra gli esempi più famosi si potrebbero ricordare “La metamorfosi” di Kafka, ma anche le “Melodie ebraiche” di Heinrich Heine o, nella poesia “La capra” di Umberto Saba, il verso in cui l’animale ha un “viso semita”.
Da un’analisi approfondita di questo fenomeno e di come soprattutto le correnti razziste se ne sono avvalse, nasce “Cani, topi e scarafaggi” di Luca De Angelis, pubblicato dalla casa editrice Marietti.
Tesi principale del libro è che il nazionalsocialismo, in particolare, riprese e riesacerbò le metafore zoologiche largamente utilizzate dall’antisemitismo di fine ottocento con lo scopo di creare un clima adatto alle persecuzioni e allo sterminio. “Tutte le catastrofi sono iniziate dalle parole” osservò Elie Wiesel.
Ovvero, per portare all’uccisione di milioni di persone il linguaggio fu indubbiamente un primo fondamentale passo, al quale, però, ne seguirono altri nella stessa direzione: l’istituzione dei ghetti nei quali gli ebrei vennero ammassati in condizioni igienico sanitarie e di denutrizione disumane per dimostrare l’esattezza delle teorie naziste e giustificare l’isolamento dal resto della popolazione.
A questo proposito l’autore ricorda la descrizione che lo scrittore polacco Kazimierz Brandys fece del ghetto di Varsavia: “Il tram passava accanto ad angoli delle strade su cui erano stati incollati manifesti in tedesco con la scritta SEUCHENGEFAHR [rischio di contagio]; il pericolo era costituito dai pidocchi e dagli ebrei, la propaganda nazista raffigurava gli ebrei come degli insetti che diffondevano il tifo e, bisogna dirlo, i manifesti servivano allo scopo, la distanza aumentava, milioni di persone avevano paura del contagio”); il costringere le vittime a spogliarsi completamente; la tosatura; “il trattamento di profilassi e di disinfestazione”.
Forse, però, ancora più emblematici furono l’utilizzo dei carri bestiame, del tatuaggio come marchio indelebile – così come veniva e viene inferto ai buoi portati al macello – e dello Zyklon B, un gas letale a base di acido cianidrico impiegato per eliminare, appunto, pidocchi e scarafaggi. “La nudità suggeriva un’identità con gli animali, mentre il raggruppamento ricordava una mandria o un gregge. Questa sorta di disumanizzazione rendeva le vittime più facili da giustiziare a colpi di fucile o nelle camere a gas”.
Il definire e considerare un essere umano una bestia, o peggio, un parassita, un succhiatore di sangue, simbolo di sporcizia e veicolo di malattie e infezioni attutisce o addirittura annulla i sensi di colpa, i rimorsi di coscienza e la vergogna di schiacciarlo, torturarlo, ucciderlo. Anche con le modalità più umilianti, anche utilizzandolo come cavia per esperimenti assurdi.
Dall’altra parte, gli autori ebrei che spesso sono stati vittime di aggressioni e discriminazioni hanno usato le metafore zoologiche come forma di autoironia, per elaborare le offese e “mantenere il proprio equilibrio psichico”, sviluppando, così, “una scaramantica resistenza nei confronti della sofferenza e dell’esclusione” e rendendo più sopportabile, “anche per un solo momento” una realtà dolorosa.
Questo utilizzo, però, oltre ad essere una denuncia, è anche una “previsione dell’esperienza” perché affrontare le minacce presenti e cercare di prevedere quelle incombenti è “condizione di sopravvivenza”.
Ed è anche un ammonimento poiché, conclude De Angelis, “chi è contro l’ebreo è contro l’uomo”.
Elena Lattes