La data del 15 aprile 1944 è segnata da un avvenimento politico che scuote l’italia fascista. L’uccisione del filosofo Giovanni Gentile, barbaramente finito a Firenze per mano del commando comunista gappista, (gruppo di azione patriottica) pone dei dubbi e spunti riflessivi su cui ancora la società civile si interroga: un mistero e una ferita che dopo ottanta anni, ravvvisa (per fortuna) sempre meno ombre e più luci, grazie alle rivelazioni documentarie forniteci da Luciano Mecacci con la pubblicazione del suo libro “La ghirlanda fiorentina”. (Adelphi Edizioni)
A quanto pare fu lo stesso Togliatti che ne rivendicò la morte, affermando tale simbolico gesto come monito ai pusillanimi intellettuali di destra affinché passassero dall’altro fronte, come dimostrazione di forza tesa a stabilire chi era al vero comando.
Togliatti su L’unità di Napoli definì Gentile un “volgarissimo traditore, bandito politico, camorrista, corruttore di tutta la vita intellettuale italiana”.
Togliatti fu anche colui che operò una certa emarginazione isolativa su Benedetto Croce, l’altro filosofofo del neoidealismo liberale italiano, unito a Gentile dal comune distacco dal Materialismo e Positivismo. La reciproca trentennale collaborazione, nella quale le concezioni filosofiche, quella dell’Attivismo di Gentile e Storicistica di Croce si nutrirono ciascuna del pensiero dell’altro: ma finì quando Gentile gettò a fondamento filosofico e pratico, la politica totalitaria di Mussolini e la successiva adesione alla Repubblica di Salò.
Per Togliatti e per il comunismo l’Attualismo di Gentile e lo storicismo di Croce erano un ostacolo ideologico da combattere strenuamente.
L’assassinio e la manipolazione predatoria rappresentarono in quel frangente due forme di lotta politica per far tacere il pensiero critico autonomo.
L’esecutore materiale fu Bruno Fanciullacci, il quale prima di ucciderlo gli si rivolse con queste parole: “noi non uccidiamo l’uomo ma le sue idee”.
Il Fanciullacci non avrebbe mai immaginato che uccidendo Gentile non avrebbe oblìato in “eternis” la sua eredità storica e filosofica, per quanto il comunismo abbia sempre tentato di tenerla nascosta.
La filosofia di Gentile inizialmente ispirata da Marx avrebbe potuto conciliarsi con il comunismo. (?) Tant’è che Sergio Romano l’ha definito il “filosofo di Mussolini, il Maestro occulto del comunismo italiano”
Tuttavia il suo non è solo un oblìo ma una maledizione.
L’oblìo della filosofia idealista e l’oblìo del Paese, un idealista militante legato ai valori della italianità.
A lui è legata la riforma Gentile del 1923 della scuola ancorata alla legge che porta il nome dell’allora ministro dell’Istruzione Gabrio Francesco Casati del 1861, che introduceva con l’unificazione nazionale, l’obbligo scolastico.
Tale legge è rimasta invariata sino all’avvento della Repubblica che con il provvedimento del parlamento italiano con la legge 31 dicembre 1962 n.1859, abolì la scuola di avviamento professionale, creando la scuola media unificata.
Mussolini la designò come “La più fascista” delle riforme.
Essa si basava su una concezione elitaria della scuola superiore, al cui accesso dovevano accedere gli allievi di maggiore talento, oppure, quelle delle famiglie più facoltose.
“Gli studi secondari sono di loro natura aristocratici, nell’ottimo senso della parola, studi di pochi, dei migliori […]; perché preparano agli studi disinteressati scientifici; i quali non possono aspettare a quei pochi, cui l’ingegno destina di fatto, o il censo e l’affetto delle famiglie pretendono destinare al culto de’ più alti ideali umani”
Senza addentrarmi nei particolari della riforma di stampo prettamente maschilista, (oggi palesemente reazionaria e più anacronistica che mai) articolata, tesa a priviligiare gli studi umanistici e filosofici, eleva il liceo classico a scuola di élite, consentendo l’accesso a tutte le facoltà universitarie, al contrario delle altre che ne limitano alcune.
Faccio notare sommessamente al lettore,
un “vulnus” incolmabile della riforma, che, ahimè, precludeva al Liceo Classico lo studio della Storia della Musica, ingenerando un vuoto conoscitivo al patrimonio culturale e spirituale che è insito al suo linguaggio universale.
Tale studio era riservato soltanto agli Istituti Magistrali, la scuola che abilita all’insegnamento delle elementari, creando altresì un ancestrale retaggio diseducativo nella conoscenza della disciplina nella popolazione italiana, tutta. Scelta non lungimirante che ha come ricaduta un disvalore incolmabile nella realtà di oggi, in cui insensibilità e inacculturazione, non solo come mancato riconoscimento nobilitativo al nostro Paese e al nostro teatro musicale nonché alla letteratura cameristica e sinfonica, altrettanto importante, e, non solo, come mero gesto di orgoglio nazionalistico, ma come nutrimento spirituale e sociale dell’individuo.
È riscontrabile tutt’oggi che uno studente liceale conosca Caravaggio, Pontormo o Raffaello e non sappia chi è e cosa ha scritto Bach, Haydn, Mozart e Beethoven. E cosa ancor più grave, il non considerare l’arte come un efflusso di un processo evolutivo nel quale tutte le espressioni letterarie, pittoriche e musicali si compenetrano trasversalmente in un mutuo scambio di influenza.
Antistorico sarebbe non attribuire il merito di Giovanni Gentile di essere il cofondatore della Enciclopedia Treccani e dell’Ismeo, (Istituto Italiano per il Medio ed estremo Oriente)
innalzando il livello culturale del paese.
A parte il mandante e l’assassino materiale, ad ucciderlo moralmente furono altri intellettuali, professori universitari in organico al Pci, vicini a Secchia e a Togliatti, rientrato un mese prima dell’uccisione di Gentile dall’Urss.
Pare fosse proprio il capo del Pci a rivendicarne l’uccisione. E ancora peggio il plauso sbeffeggiante da parte di intellettuali a lui vicini, come Bianchi Bandinelli e altri, che erano stati debitori di Gentile, al quale si erano rivolti per favori personali.
Egli venne denigrato sia come filosofo che come uomo.
Il giovane Spadolini suo giovane studente, scrisse che al suo funerale non c’erano né accademici né universitari, tranne tre, ma a rendergli omaggio una larga commozione del popolo.
Chi lo volle uccidere volle, forse, nascondere l’appello di riappacificazione, volto dal Campidoglio, tra fascisti e antifascisti e che da Mosca Togliatti aveva stigmatizzato fortemente. Lo avevano ucciso non per aver aderito alla Repubblica Sociale di Salò, ma per aver lanciato un accorato appello alla concordia nazionale. Qualche giorno prima era stato ucciso il suo segretario Fanelli, dal quale si cercavano documenti di Gentile. Fu eliminato dai suoi ex amici, non per la sua adesione al fascismo, ma per non voler lasciare campo libero, in futuro, un personaggio così dominante sulla scena politica tra le due grandi guerre. Il 15 aprile si compì un delitto efferato con un simbolico rito ideologico comportamentale per il futuro. Valeva a dire che gli intellettuali o si convertivano al Pci, oppure sarebbero stati revocati dai loro incarichi istituzionali o accademici come successe ai Volpi e ai Pellizzi ai Papini e tanti altri ancora.
Concludo, citando l’ultima sua Opera-Testamento considerata una svolta fondamentale di filosofia sociale: all’umanesisimo della cultura come elevazione del popolo, sarebbe seguito l’umanesimo del lavoro, che non è solo produttività e fatica, ma attività etica per il riscatto spirituale. L’uomo vale per il suo lavoro e ad esso viene identificato.
Nella concezione dello stato, Gentile in continuità con l’ideologia liberal conservatrice, nell’umanesimo del lavoro abbraccia, non saprei se consapevolmente, (di questo tuttavia dubito) l’eredità del socialismo e del sindacalismo.
Quel principio sarà poi pietra miliare della Carta costituzionale del ’48 il cui primo articolo recita che l’italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro… Se ciò fosse l’umanesimo del lavoro di Gentile avrebbe trovato radici e accogliente compenetrazione nelle forze socialiste e comuniste oltre che nel mondo cattolico e popolare.
Il Materialismo per Gentile è un crollo dell’umanità.
L’uomo svolge qualsiasi attività attraverso la “ragione: la comunità civile è contraddistinta non solo dai viventi, di cui lui ne è Voce, ma dal ricordo di coloro che non sono più, a memoria storica per le generazioni future.
” In fondo all’Io c’è un Noi”, cioè la comunità al cui fondamento, secondo il filosofo, centrale è il ruolo della famiglia.
Per Gentile la famiglia è “il perenne vivaio morale dell’umanità”
L’ultimo tratto della sua vita appare come rappacificato e sereno, costruttivo nonostante il Paese stia attraversando una parte più tormentata del XX secolo con l’ecatombe bellica. In questo uragano, foriero di distruzione e morte si erge il pensiero benevolo di questo filosofo idealista che con il suo assassinio ce lo rende un po’ martire, un po’ carnefice.
Ai posteri l’ardua sentenza, ma in effetti non è così, perché i posteri siamo noi, quindi a noi tocca emettere la sentenza su uno degli uomini più risaltanti del secolo scorso. E questo, al di là di ogni convinzione ideologica personalistica, nella quale il bene e il male sono, a volte, la faccia della stessa medaglia come nello specchio psicoanalitico di Lacan; se il delitto Mattteotti rappresenta un momento buio e deprecabile, sotto ogni punto di vista, non altrettanto estremo e diàbolus da qualsiasi lato si voglia vedere, non sarà altrettanto quello di Gentile? Alziamo le mani e consideriamo le azioni nella loro matrice generatrice, la quale non può sfuggire all’inevitabile processo storico che li travolge e li confina a sé.
Salvo Germano