Qualche giorno fa sulla stampa è uscito un succulento articolone intitolato: “Pranzo al Museo, e l’Arte è servita”. Si tratta di una esplorazione di tutti i ristoranti, bar o a nche tavole calde, aperti nei musei di Roma. “Caspita! – ci siamo detti, colpiti anche se un po’ diffidenti – ecco un tema che risveglia il nostro appetito e che vogliamo gustare con i nostri lettori”.
Però, fra collezioni irraggiungibili per riallestimento e nostri problemi di organizzazione, alla fine ci siamo trovati a non avere ancora niente da raccontarvi.
Ci scusiamo, vi promettiamo un indennizzo e vi proponiamo in sostituzione un articolo di tempo fa che ci sembra ancora attuale e interessante.
Roma, centro storico, domenica. Appena fuori da casa, ecco la grande colonna di granito grigio che sostiene l’angolo dell’edificio, sprofondata nel terreno fino alle cantine. Un salto dal giornalaio e contiamo una decina di colonnine usate come paracarri. Un cappuccino al bar che ha al centro della sala una colonna di meraviglioso marmo color crema lisciato da secoli di carezze; e finalmente una capatina in chiesa, dove c’è il meglio del meglio.
Questo, in una normalissima passeggiata di pochi metri. Colonnone e colonnine riutilizzate, magari dopo essere state sepolte per qualche secolo sotto la sabbia del fiume. Perché è così che sono spariti, e si sono salvati, un’inondazione dopo l’altra, i resti della magnifica architettura, e soprattutto dei magnifici materiali usati da Roma (un pezzo di cemento vecchio di venti anni è sbriciolato, scrostato, brutto; un pezzo di marmo vecchio di venti secoli è solo impolverato. Una sciacquatina e ridiventa splendido).
Bene, le colonne grandi, belle e in buono stato si sono trasferite nelle chiese, e sono centinaia; quelle rotte sono diventate paracarri e guardaportoni, e sono migliaia. Di tante altre siamo riusciti, con una piccola indagine, a ritrovare la destinazione.
Per esempio il pavimento di S. Agostino. Bellissimo, variopinto, lussuoso, ornato di losanghe, rombi e quadrati al centro dei quali ci sono perfette circonferenze di splendido marmo. Che non sono altro che fette di colonne tagliate come fossero salami e inserite nelle geometrie su cui si cammina.
E poi ci sono i portoni dei grandi palazzi nobiliari, papali, cardinalizi, che naturalmente hanno una soglia in cui sono scavati i solchi per le carrozze che entrando nel cortile dovevano seguire quelle guide per non andare a raschiare gli stipiti con i mozzi delle ruote.
Bene, quei monoliti su cui noi poggiamo i piedi meravigliandoci del bellissimo granito rosa o grigio di cui sono fatti, sono anche loro colonne (di qualche tempio, salone o peristilio), solo che invece di essere fatte a fette, sono tagliate per il lungo, in modo che la parte arrotondata vada adagiata sul terreno, mentre quella dritta rimanga a vista con, scalpellati nel fusto originale, i piccoli solchi antiscivolo per le pantofole dei cardinali e quelli grandi per le ruote delle carrozze.
E il meccanismo di questo recupero si capisce andando a cercare questo bellissimo frammento rilavorato di granito grigio, in cui si vede bene la curva della colonna nella parte di sotto e la lavorazione per la nuova destinazione in quella di sopra.
Lo trovate buttato a terra insieme ad altri marmi lungo il sentiero che porta alla Casina delle Civette di Villa Torlonia.
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