La vicenda legata alla tragica morte del militare siracusano Antonio Drago, Tony per gli amici, che secondo la prima versione ufficiale sarebbe salito al terzo piano della palazzina 24 nella caserma dove prestava servizio come caporale e si sarebbe lanciato nel vuoto, non regge al confronto dei fatti. Morto a soli venticinque anni mentre prestava servizio militare a Roma, nello squadrone di rappresentanza del reggimento Lancieri di Montebello, il corpo del militare Antonio Drago fu scoperto domenica 6 luglio del 2014 da alcuni militari di pattuglia durante un controllo di routine. Gli investigatori sostennero fin dal primo momento la tesi di alcuni colleghi del suicidio, ma i dubbi cominciarono subito a percorrersi lungo la strada delle indagini. Antonio Drago, dissero, si è ucciso lanciandosi nel vuoto. L’ha fatto alle sei del mattino, quando era più difficile, essere visto e quindi aiutato da qualcuno; tra le probabile cause che si sia ucciso per una delusione d’amore. Questo fu quello che a caldo i colleghi del militare raccontarono agli investigatori che si occuparono del caso; ma i dubbi che possa trattarsi di un caso di nonnismo sono oggi ancora più che valido. I genitori di Tony non hanno mai creduto che il loro ragazzo si è tolto la vita.
Qualche dubbio venne fuori anche dai risultati dall’autopsia. Il corpo ritrovato fuori asse dal raffronto con la finestra da cui si sarebbe lanciato nel vuoto faceva intravedere una notevole discrepanza con la logica deduzione. Stessa cosa per le ferite sulla schiena che non risultarono compatibili con la caduta e che apparivano risalenti ai giorni precedenti il fatto. Stessa cosa per le fratture alle mani.
L’ipotesi del suicidio è da scartare dicono i genitori. Era venuto in licenza pochi giorni prima e non aveva dato nessun segno di particolare sofferenza. Al suo rientro in caserma aveva chiesto di prolungare la sua presenza nell’esercito per un altro anno. La sera prima della morte era andato in discoteca. Non sembrano comportamenti di chi ha deciso di non avere più un futuro, insistono i genitori di Tony. A Roma aveva quella che la stessa mamma definisce una seconda famiglia. La fidanzata e i genitori della ragazza. È vero che con la fidanzata stava attraversando un rapporto con alti e bassi, ma era nella norma e questo non può mai giustificare una decisione così grave da togliersi la vita.
L’ipotesi del suicidio non regge alla fatta dei conti. Elementi di dubbio anche sull’abbigliamento che al momento del ritrovamento i vestiti indossati non sembravano adatti a un soldato che si sveglia la mattina per andare incontro alla morte volontariamente. Non era il tipo che per amore si sarebbe tolto la vita. Così dichiarano più volte gli amici più intimi di Tony Drago. Sotto accusa ancora stavolta sarebbe il “nonnismo”, come in un parallelismo con il caso del parà siracusano Emanuele Scieri.
Con il termine nonnismo è spesso comunemente indicato un insieme di prove dolorose o di pratiche ritualizzate, destinate a simboleggiare l’integrazione di un individuo in un particolare gruppo sociale, la propria forza e capacità in una condizione di lotta al più forte e al più bravo.
Si può manifestarsi in determinati contesti e tra categorie di soggetti come ad esempio: studenti, militari, professionisti, anche se spesso può essere conseguenza di semplice mobbing. Riguarderebbe quindi i gruppi sociali organizzati; tuttavia è spesso utilizzato per indicare comportamenti vessatori nell’ambito del termine “nonnismo” che si rifà alla parola “nonno”, che gergalmente identifica il membro anziano del gruppo, in contrapposizione al “nipote”, cioè al novizio, alla recluta, al novellino, agli ultimi arrivati in caserma.
Nella fenomenologia del nonnismo si parte dai semplici atti di superiorità, insulti pesanti, scherzi balordi e insensati, fino ad atti di gravità maggiore: furto, lesioni, disturbo costante psicofisico della vittima, atti di persecuzione, denigratori, discriminatori e di devastazione, ed anche di tipo razzista. In particolare, esso è spesso utilizzato per riferirsi ad alcuni tipi di atti e pratiche persecutorie all’interno delle forze armate. Spesso si risolvono invece in veri e propri atti persecutori, di forza, fini a se stessi, con vessazioni di ogni sorta, fino a sfociare, in casi non rarissimi, persino nella violenza fisica con il sangue e nell’omicidio, così come al possibile suicidio per la disperazione accumulata. Benché all’interno delle forze armate il nonnismo sia generalmente vietato e scoraggiato, talvolta non pochi ufficiali tendono a minimizzarlo, spesso per ragioni di opportunità che sfocia in omertà, in un codice d’onore militare, come in una regola mafiosa. Sostanzialmente si è sovente tradotto in uno strumento di pressione e di ricatto per sottomettere un soggetto, o per fargli compiere diverse azioni contro la propria volontà, oppure anche per eliminare un soggetto da un determinato contesto.
A volte è stato, più o meno consapevolmente, un mezzo per la regolazione delle gerarchie all’interno della truppa, della camerata, soprattutto nei confronti dei soldati più giovani, generalmente le reclute, o anche inesperti, prefigurandosi come un’alternativa ufficiosa alla linea di gerarchia militare di comando formale, per mantenere certi equilibri all’interno di unità e reparti.
Per questo motivo le gerarchie, soprattutto ufficiali, subalterni e sottufficiali, tendono a ignorarlo, almeno fino a quando gli atti non superano i livelli di gravità tali da dare luogo a scandalo pubblico, in genere in seguito a gravi infortuni o alla morte di un soldato recluta perché tra i nonni vige un codice di rispetto reciproco. Il fenomeno pare essere più frequente negli stati che adottano un esercito di massa.