Romanzo musicale, La quarta donna di Giampiero Bernardini, verrebbe da dire, in quanto principiante con un Preludio – al modo di un’Opera lirica – e concludente con un Postludio, sempre al modo di una composizione musicale. Ma romanzo ‘musicale’ anche in ragione del fatto che, più che di un’opera di teatro musicale, trattasi di una composizione musicale a più voci, quindi polifonica. E le tante voci – intendendo i motivi diversi che la innervano – coesistono spesso in drammatica contraddizione fra loro.
Articolata la trama: l’avvocato Diego Bene, in una notte insonne, vede affacciarsi nella sua coscienza le contraddizioni irrisolte della propria vita. È giunto sulla soglia dei cinquant’anni con lo stesso discernimento di sempre, come se nulla fosse accaduto. La realtà che gli si palesa – affatto diversa da quella che abitualmente immagina – gli toglie il sonno.
Quella stessa mattina, come ogni mercoledì, prende il treno per recarsi in provincia, dove, come a Roma, esercita la professione. Qui incontra alcune persone, in particolare tre ragazze che, sulle prime, fatica a riconoscere come prostitute, e che costituiranno i cardini delle vicende successive. Oltre alle lucciole, si tratta di colleghi avvocati, sostituti procuratori aggiunti e, successivamente, ufficiali e sottufficiali delle forze dell’ordine. Incastrato come sospetto nelle indagini su di un delitto, per uscire dall’angolo dove lo stanno stringendo è costretto ad approfondire i rapporti con le prostitute. Nella ricerca di una via d’uscita, viene aiutato da un amico poliziotto, Pilade Pierpaoli, e assieme scoprono che il caso che lo coinvolge è molto più vasto e di carattere nazionale/internazionale, implicando oltre al meretricio, il traffico della droga e delle armi e la tratta di esseri umani nel fenomeno dell’immigrazione clandestina. Pilade costringe Bene anche ad andare in Romania dove lo conducono i dati di una targa d’auto fotografata dall’avvocato sui luoghi del lenocinio. Qui, anche grazie all’aiuto di una ragazza, Mariana, conosciuta nell’Automobil club locale, compie un percorso a ritroso nella memoria – dodici anni prima era stato in vacanza in Romania – che lo porta a scoperte di capitale importanza.
Tornato in Italia, dopo due ulteriori incontri chiarificatori con Pilade, trova la chiave per risolvere il caso, anche grazie all’intervento di un’altra persona.
Romanzo thriller, dunque, La quarta donna, e romanzo che appartiene al genere “giallo” in un modo che è nel contempo sostanziale e pretestuoso. Lo è nel primo caso, perché si tratta di una storia thrilling ricca di tutti gli elementi del genere – il mistero iniziale, la rivelazione della fondatezza dei propri timori, il riconoscersi mano a mano come sempre più compromesso nel destino della vittima e delle sue colleghe, non tanto nella prospettiva della legge quanto in quella della propria coscienza, i rischi reali e le situazioni limite che sperimenta nella ricerca della verità –. Ma lo è anche e soprattutto nel secondo caso perché il fine ultimo della narrazione sembra essere quello di una denuncia dell’involuzione spirituale cui quasi tutti i protagonisti della vicenda – salvo poche eccezioni – subiscono. Inoltre l’autore sembra avere l’intenzione di comporre un quadro, certamente parziale, della complessa ricerca di un obiettivo e un’identità nella realtà attuale.
Agli occhi di Bene, la giustizia che tenta di metterlo sotto accusa è essa stessa vittima di una malattia spirituale che le impedisce di guardare oltre le proprie convinzioni. Come anche la sua stessa – di Bene – incapacità di riconoscere le cose per quello che sono e chiamarle con gli autentici – e non quelli fittizi – nomi che le caratterizzano. È in questa continuità con gli umori, le opinioni, il modus cogitandi o wishful thinking del proprio presente che il protagonista riconosce il proprio fallimento. Volere una realtà diversa ma agire in direzione opposta a questa ambizione.
Un testo politicamente scorretto, quindi, che non ha téma di scoperchiare tanto le ipocrisie della società italiana e occidentale della nostra epoca, quanto le impronunciabili complicità che legano i loschi Caronte dell’immigrazione clandestina agli ipocriti buonisti e faccendieri italiani che si adoperano attorno al fenomeno.