La moderna società schiava della globalizzazione diventa la causa principe che ha creato la crisi del sindacato dei lavoratori tra compito storico e funzione sociale-politica, in difesa dei prestatori d’opera nel suo insieme. Il ruolo del sindacato-associazione è completamento cambiato. Il prestigio si è indebolito, mentre la sua capacità economica è cresciuta per effetto della leggi che ha beneficiato, ma il suo ruolo è cambiato, nell’attuale scenario politico economico e sociale confuso nella moderna società, divenuta più di ordine individuale che collettiva. Oggi non ha più lo stesso significato e potere; il legame tra il sindacato e la società moderna, con il forte ruolo positivo del sindacalismo nell’economia globalizzata di un tempo, è ormai tramontato. Un serio pericolo per il sindacato dei lavoratori è la mancanza di una lotta mirata in favore degli interessi della classe operaia che nel frattempo è cambiata anche nel rapporto storico con i partiti politici. Si è creato un diaframma tra gli operai e il mondo sindacale, oltre che alla personale credibilità, di ogni eccezione distinta, così come per il riconoscimento per le lotte sindacale con i tanti martiri del sindacalismo.
Le variabili strettamente legati a fatti meramente sindacali, come si è mostrato di primo acchito, non è nemmeno una strategia nei diversi fatti contingenti delle singole aziende che continuano ad essere rilevanti, nonostante le dinamiche fuori regime industriali e sindacali, ma alla crisi d’identità del sindacato nel suo insieme. L’associazionismo sindacale perde il suo valore storico e la stessa funzione per cui nasce la lotta di classe, cancellata dalla globalizzazione.
Il diritto al lavoro in Italia è violato. E non è il reddito di cittadinanza che risolverà il grave problema della disoccupazione e della povertà, poiché implica un costo aggiuntivo per la collettività senza risolvere il problema. È cambiato il rapporto tra diritti e doveri. Impegnarsi per dieci ore e ricevere la paga per appena quattro senza alcuna possibilità di difesa, è una realtà di tutti i giorni. Commesse, garzoni, tecnici, operai, giornalisti, attori, pittori e lavoranti in genere, tutti sfruttati per la sopravvivenza; la crisi condiziona le istituzioni dello Stato democratico. Nessuna certezza del diritto per chi lavora, men che meno per i disoccupati abbandonati al destino dei vinti ad arrangiarsi: spaccio di droga, lavori precari o stagionali, vendita abusiva di frutta e verdura, prostituzione, accattonaggio, emigrare all’avventura. In Sicilia poi, se non hai la raccomandazione, non puoi trovare lavoro nemmeno in una gelateria, o in un negozio come garzone, in un ristorante come lavapiatti o cameriere. Il lavoro è lasciato al libero arbitrio degli industriali, dei commercianti, artigiani e imprenditori in genere, scavalcando le forze di polizia, l’ispettorato del lavoro, la magistratura, quando invece deve costituire oggetto di politiche pubbliche, nell’ambito di una più ampia programmazione di stato sociale, dove il controllo deve essere efficace e i parametri conformi alla dignità umana. Manager pubblici con 40mila euro al mese; deputati e senatori che guadagnano dagli 11mila ai 25mila euro al mese, e chi, invece, non può comprare il latte per sfamare i propri figli.
I sindacati dei lavoratori tentano in tutti i modi di contrastare il grave fenomeno sociale, ma mancano le prove, e soprattutto la ferma volontà di chi deve denunciare per paura di perdere quel pizzico di lavoro trovato dopo anni di ricerca e umiliazione, per il passa parola tra imprenditori che sfilano una lista nera di chi cerca i propri diritti. In questa logica non scappa nessuna categoria. O abbozzi o non lavori. La paga è ridotta ad un terzo del dovuto, quando non c’è anche il ricatto sessuale. Una busta paga, in teoria e sulla carta completa, ma il denaro ricevuto dal dipendente è dimezzato, e a volte anche meno.
L’articolo 23 della Costituzione recita che ogni individuo ha diritto al lavoro, alla libera scelta dell’impiego, a giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro e alla protezione contro la disoccupazione; senza discriminazione, ha diritto a eguale retribuzione per uguale lavoro. Chi lavora ha diritto a una remunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia un’esistenza conforme alla dignità umana e integrata, se necessario, da altri mezzi di protezione sociale. Chi lavora ha il diritto di fondare dei sindacati e di aderirvi per la difesa dei propri interessi, ma anche l’iscrizione a un sindacato è un punto sfavorevole per avere diritto al lavoro.
In sostanza, il lavoratore deve sempre tenere a mente che restare senza un’occupazione si può verificare in ogni momento, dall’oggi al domani; tra l’altro le norme e in vigore non costituiscono un deterrente valido per il datore di lavoro, che può mandare a casa le persone senza doversi fare troppi scrupoli e assumere secondo la sua discrezionalità, in un mercato, dove i disoccupati sono migliaia.
La disoccupazione e la mancanza di lavoro sicuro spingono i lavoratori a trovare occupazione nel settore informale, “amichevole”, dell’economia sommersa. Ci sono poi i lavori sfruttati, forzati, dove i governi degli stati democratici, come da noi sulla carta, sono obbligati ad abolire, vietare e contrastare, intervenire, per ridurre quanto più possibile il numero di lavoratori che operano al di fuori dell’economia sommersa, obbligando i datori di lavoro a rispettare la legge e dichiarare i nomi dei loro lavoratori. Insomma, rendere possibile la garanzia dei loro diritti. È poi proibito il lavoro dei minori di sedici anni, ma è solo una norma scritta e basta. Il diritto al lavoro, non ha nulla a che vedere con l’ideologia neoliberista e relative attaccaticce varianti. La regola teorica del vecchio Marx vuole che il salario si abbassi quando il numero dei disoccupati si alza; regole e leggi che nessuno rispetta, aggirando invece le mille norme in materia vigenti in Italia. Il diritto al lavoro, di fatto, è negato.
La fine dell’industrializzazione e i fattori che hanno portato al tramonto dell’impresa classica, insieme e al sindacato dei lavoratori, risentono della spersonalizzazione dell’incontro fra la domanda e l’offerta di manodopera e della negoziazione delle condizioni di lavoro in maniera diretta. Il mercato del lavoro è ormai dato dalla concorrenza tra gli stessi lavoratori, senza più le istituzioni, dove i sindacati dei lavoratori avevano un ruolo mediatico e di rappresentatività associativa. Un dualismo, dettato fra protetti dal sindacato regolare e gli esclusi tra i quali la grande maggioranza dei più giovani; un movimento liquido tra la divisione e la funzione delle organizzazioni sindacali che è diventata in parte politica che appare largamente superata, non più compresa dalla maggior parte delle maestranze. È cambiata anche la regola della concertazione che costituiva uno strumento utile e dare una marcia in più sia al sindacato sia alle istituzioni, così come alle associazioni imprenditoriali sugli obiettivi da raggiungere e i vincoli da rispettare con la condivisione.
Il sindacalismo si è costruito dal Dopoguerra in poi fino all’attuale crisi prevalentemente intorno alla contrattazione di livello nazionale e locale, che si è nutrito d’intese tra il sindacato stesso e il Governo. La storia dei movimenti operai europei è piena di sindacati che si sono fatti partito, o hanno stabilito rapporti molto stretti con partiti politici amici. Questo fenomeno, quasi scomparso, era legato ad un contesto nel quale il compito che il sindacato e il partito si proponevano era di correggere la contorsione di cui prima beneficiavano solo le imprese nel mercato del lavoro a svantaggio dei lavoratori. Siamo ritornati indietro nel tempo.
E la storia si ripete. La premessa si inserisce nel nuovo dibattito sulla nascita del sindacato dei militariin Italia che non entusiasma più di tanto nello stereotipo collettivo. Non perché la società moderna è insensibile ai temi dei diritti di uomini e donne appartenenti alle forze armate, ma perché ribatte una vecchia questione di principio, forse ancora in voga, sull’opportunità di separare la vita civile da quella militare. E mentre prima la nascita delle associazioni sindacali tra militari era impossibile, ora è possibile grazie alla sentenza della Corte Costituzionale che ha fatto cadere il divieto per i militari di costituire associazioni sindacali. Nella siffatta condizione, interviene l’articolo 11 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) e l’articolo 5 della Carta Sociale Europea, a cui comunque la Consulta inevitabilmente fa riferimento, fanno intendere la possibilità di “restrizioni” e misure nei riguardi del Comparto Difesa e Sicurezza, che vanno, comunque, “legiferate”. Nella buona sostanza, sancisce le libertà di associazione sindacale per le tante migliaia di operatori dei vari Corpi militari, ma con i diritti sindacali di base negati. A conferma della premessa, a fianco delle sigle sindacali militare costituite a tutela dei lavoratori di Finanza, Carabinieri, Aviazione, Marina ed Esercito, ci sono i sindacati storici Cgil,Cisl, Uil e Ugl.
Ma il sindacato per i militari appare come una opzione di opportunità politica e non come un’associazione per i diritti di uomini e donne che hanno scelto di essere militari. E questo spiega il perché delle circa 30 sigle sindacali militari già germogliate.
In tutto questo la politica, che dovrebbe dettare le regole, si nasconde distaccata apparentemente dai richiami della Costituzione. E questo potrebbe spiegare perché, dopo la sentenza della Corte costituzionale che ha confermato la legittimità del sindacalismo militare, le norme che dovrebbero regolarne l’attività siano ferme in Parlamento, mentre la bozza del testo che circola appare scritto e diretto dai vertici militari. Risultanza che ricorda tanto le corporazioni di epoca fascista. Insomma, la società italiana e dell’intera europea ha, purtroppo, sempre più voglia di Destra.
Concetto Alota