Mafia: permesso premio ad un mandante dell’omicidio di Rosario Livatino

Uno dei mandanti dell’omicidio di Rosario Livatino, Giuseppe Montanti di 64 anni – secondo quanto apprende l’AGI – ha usufruito di un permesso premio della durata di nove ore. Triste scherzo del destino ha voluto che il detenuto ne usufruisse proprio nella settimana delle commemorazioni per l’omicidio del giudice Livatino, avvenuto il 21 settembre del 1990.

Il permesso premio, deciso dalla magistratura di Sorveglianza di Padova, è il primo dall’ergastolo (comminato nel 1999 dalla Corte d’assise di Caltanissetta) e dalla successiva latitanza. Montanti è stato per vent’anni in regime di carcere duro e ha ottenuto il permesso anche grazie alla sentenza della Consulta di qualche mese fa sui reati ostativi ed i permessi.

Il 64enne ha usufruito del permesso nei giorni scorsi e, durante le nove ore “premiali”, ha ricevuto telefonate e incontrato familiari e amici, per poi far rientro in carcere. L’uomo venne arrestato dopo la condanna del 1999 e a seguito di un periodo di latitanza ad Acapulco, in Messico.

Il delitto Livatino

Erano passate da poco le 8.30 quella mattina del 21 settembre 1990. Rosario Livatino, che il 3 ottobre avrebbe compiuto 38 anni, a bordo della sua Ford Fiesta di colore rosso, da Canicattì dove abitava, si stava recando al tribunale di Agrigento, quando fu avvicinato, braccato e ucciso senza pietà da un commando mafioso. In questi giorni il magistrato, di cui è in corso il processo di beatificazione, avviato nel settembre 2011, viene ricordato con una serie di iniziative. Ma sul trentesimo anniversario piomba la notizia – confermata all’AGI – della concessione di un permesso premio a Giuseppe Montanti, 64 anni, di Canicattì, condannato all’ergastolo.

In base alla sentenza che ha condannato al carcere a vita sicari e mandanti, Livatino fu ucciso perché “perseguiva le cosche mafiose impedendone l’attività criminale, laddove si sarebbe preteso un trattamento lassista, cioè una gestione giudiziaria se non compiacente, almeno, pur inconsapevolmente, debole, che è poi quella non rara che ha consentito la proliferazione, il rafforzamento e l’espansione della mafia”. Giovanni Paolo II, pensava anche al magistrato, che una volta definì “martire della giustizia e indirettamente della fede”, quando da Agrigento il 9 maggio del 1993, lancio’ il suo anatema contro i mafiosi.

Quel mattino di 30 anni anni fa, il giudice stava percorrendo i duecento metri del viadotto San Benedetto, a tre chilometri dalla città dei templi, quando una Fiat Uno e una motocicletta di grossa cilindrata lo affiancarono costringendolo a fermarsi sulla barriera di protezione della strada statale. I sicari spararono numerosi colpi di pistola. Rosario Livatino tentò una disperata fuga, ma fu bloccato. Sceso dal mezzo, cercò scampo nella scarpata sottostante, ma fu raggiunto e ucciso. Sul posto arrivarono i colleghi del giudice assassinato: da Palermo l’allora procuratore aggiunto Giovanni Falcone e da Marsala Paolo Borsellino.

Rimane ancora oscuro il “vero” contesto in cui maturò la decisione di eliminare un giudice non influenzabile. Prima di lui, il 25 settembre 1988, stessa sorte era toccata al presidente della Prima Sezione della Corte d’Assise d’Appello di Palermo Antonino Saetta e al figlio Stefano trucidati in un agguato sempre sulla statale Agrigento-Caltanissetta, sul viadotto Giulfo mentre, senza scorta e con la loro auto, facevano rientro a Palermo.

Nella sua attività Livatino si era occupato di quella che sarebbe esplosa come la ‘Tangentopoli siciliana‘ e aveva colpito duramente la mafia di Porto Empedocle e di Palma di Montechiaro, anche attraverso la confisca dei beni.

La storia di Livatino è stata raccontata da Nando dalla Chiesa nel libro “Il giudice ragazzino”, titolo che riprende la definizione – oggetto di forti polemiche – di Francesco Cossiga. “Livatino e la sua storia – scrive Dalla Chiesa – sono uno specchio pubblico per un’intera società e la sua morte, più che essere un documento d’accusa contro la mafia, finisce per essere un silenzioso, terribile documento d’accusa contro il complessivo regime della corruzione”.

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