Petrolchimico siracusano: quei veleni in fondo al mare dimenticati

Una puzza irresistibile, l’aria irrespirabile, colonne di fumo nero nel cielo, il percolato delle discariche quando piove scorre verso il mare, uliveti e limoneti trasformati in discariche di rifiuti e impianti di compostaggio puzzolenti, di cui quattro nati da poco nelle contrade Bagali, Sabbuci e Santa Catrina nel silenzio generale, i fondali marini invasi da veleni pericolosi e ormai dimenticati. Benvenuti nel Petrolchimico siracusano, dove sono i cancri e i tumori a regolare la vita e la morte. I tanti bambini che sono nati malformati e i pesci deformati, sono stati dimenticati.

Il triangolo industriale siracusano è uno spicchio di terra in cui è diventato rischioso viverci. Lo scenario è apocalittico. Nel gioco delle parti gli industriali capitalizzano da sempre gli utili e socializzano le spese sia per le bonifiche sia sanitarie, con malati cronici di tumori e cancri, che provocano morte e dolore nel silenzio generale, tra amianto e veleni sparsi in lungo e in largo, ma alla fine a pagare è sempre la comunità, i cittadini residenti, semplicemente colpevoli di essere nati qui, nell’infero sulla terra creato dagli interessi dal profitto, dalla speculazione.

Sono state tante le industrie che nel passato hanno sfruttato il mercato per poi sparire nel nulla lasciandosi dietro disperazione e dolore, e senza pagare i costi delle spese per le bonifiche.

Un territorio in cui non sono più quantificabili le spese della messa in sicurezza della falda acquifera, del mare inquinato a più non posso, dei terreni avvelenati per la presenza delle discariche di cui solo 23 autorizzate e oltre cento quelle abusive sparsi in lungo e in largo, nelle vecchie cave di pietra e nei terreni circostanti.

La criticità principale è diventata l’inquinamento del mare e dei necessari dragaggi per eliminare quei veleni giacenti nei fondali e ormai dimenticati. Un fatto che le industrie vorrebbero soffocare, come se non fosse un fatto in cui sono coinvolti.

In occasione del servizio andato in onda su RaiTre “i dieci comandamenti”, Don Palmiro Prisutto, il prete di Augusta che da sempre si batte in difesa della vita contro l’inquinamento selvaggio, è stato accusato di aver dichiarato il falso dall’Associazione degli industriali di Siracusa, per aver affermato durante la trasmissione che nei fondali della rada di Augusta, secondo le fonti del Ministero dell’Ambiente, ci sono giacenti 18 milioni di metri cubi di sedimenti contaminati da veleni industriali e non solo, aggiungiamo noi.

In quell’occasione Assindustria Siracusa in un articolo elencò una serie di contestazioni sostenendo che molti punti dell’inchiesta erano, falsi. In effetti, molte di quelle verità dettate a senso unico dai protagonisti della trasmissione erano leggermente difformi dalla realtà, ma tante invece erano e sono verità conclamate, come risulta dai dati diffusi dall’Ispra e sopra riportati.

La prima contestazione fatta dagli industriali è la quantità di sedimenti, cioè dei fanghi mischiati ai tanti veleni giacenti nella rada di Augusta, vale a dire, nel Sito d’Interesse Nazionale denominato “Sin Priolo”, area a forte rischio ambientale per decreto, se per caso qualcuno l’avesse nel frattempo dimenticato.

La fonte delle notizie è L’ICRAM – l’Istituto Centrale per la Ricerca Scientifica e Tecnologica applicata al Mare, che nel 2008 confluì, armi e bagagli, nell’ISPRA, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale che ha eseguito all’inizio degli Anni Duemila la caratterizzazione con carotaggi e prelievi dei veleni che giacciono nei fondali della rada di Augusta, così come in altri porti, fiumi, laghi, insieme alla stima dei volumi di sedimenti contaminati, oltre che le analisi degli interventi possibili di bonifica e le operazioni di gestione dei dragaggi necessari.

La perimetrazione a mare nel Sito Priolo ha interessato circa 10mila ettari di specchio acqueo, con la scelta di campioni per l’esecuzione di analisi chimico fisiche e microbiologiche ai fini della caratterizzazione comparata, Inoltre, sono stati elaborati i valori d’intervento per sedimenti giacenti all’interno della rada di Augusta, con l’identificazione delle aere, dove sono necessarie urgenti misure d’intervento. Per quanto concerne la rada di Augusta, i dati derivanti dalla caratterizzazione ambientale, nelle due fasi elaborati dall’ICRAM, hanno evidenziato una grave situazione primaria di contaminazione dei sedimenti principalmente da mercurio e idrocarburi, e secondariamente da esaclorobenzene, piombo, rame, zinco, arsenico, diossine, furani, idrocarburi in genere e tanto altro ancora.

Analizzando i valori degli studi depositati a suo tempo presso il ministero dell’Ambiente, nel grafico di riferimento dell’ISPRA sopra riportato i sedimenti sono stati divisi con diversi codici identificativi. Quelli indicati con il colore Giallo, cioè, con concentrazioni per le quali è necessario l’avvio di un approfondimento d’indagine o l’avviso d’interventi urgenti di bonifica, sono stati poco più di 7 milioni di metri cubi.

I sedimenti indicati con il colore Rosso, quelli con concentrazioni tali da richiedere l’avvio immediato d’interventi di bonifica, sono poco più di 6 milioni e 200 mila metri cubi.

I sedimenti identificati con il colore Viola, con concentrazioni superiori ai valori pericolosi tali da richiedere l’avvio immediato della messa in sicurezza, sono poco di 700mila metri cubi.

Un totale generale di 13 milioni e 304mila metri cubi, dati necessariamente provvisori, considerato che si riferiscono a circa 15anni fa.

Nella somma dei diciotto milioni di metri cubi incriminati sono compresi i circa quattro milioni di metri cubi di sedimenti contaminati dai reflui fognari per la mancanza endemica del depuratore nel comune di Augusta, che scarica da sempre a mare; gli scoli e le perdite incidentali d’idrocarburi dalle petroliere e chemichiere in movimento nei pontili, e i metalli ferrosi provenienti dalle demolizioni delle navi nella rada. Le polveri metalliche e di zolfo presenti nelle banchine del porto commerciale. Dal percolato che arriva dalle varie discariche di rifiuti velenosi e di rifiuti urbani delle zone adiacenti che da anni vengono tutti sversati nella rada durante le piogge. Da sommare nel calcolo i sedimenti giacenti nel Seno del Priolo. Cioè, nel tratto di mare che va dalla diga foranea del porto di Augusta, all’Isola di Magnisi, dove veniva scaricato il mercurio incriminato proveniente dall’impianto, Cloro Soda, in cui avveniva lo smaltimento illegale in mare e che fece scattare l’inchiesta della Procura di Siracusa denominata, Mare Rosso.

Insiste anche il calcolo eseguito, in vari progetti per la bonifica sia da parte delle Autorità preposte, studi di progettazione, così come da alcune società olandesi e italiane in associazione temporanea per i programmati lavori di dragaggio e per l’occasione con diversi progetti per il dragaggio e la bonifica dei sedimenti velenosi nella rada di Augusta e aree adiacenti. Ma nel 2009, tutto si fermò per l’intervento della magistratura amministrativa, dapprima del Tar e del Cga, ma poi anche da parte della Corte Europea, che sentenziarono, tutti all’unisono, che per quei veleni era più conveniente lasciarli lì, dove si trovano ancora oggi, anziché smuoverli.

Stiamo ancora oggi aspettando chi non arriverò mai e le tante verità propinate a ventaglio sulle bonifiche, ma nel frattempo abbiamo sommato tanti morti e un esercito di sofferenti a rischio tumori e tante false promesse da parte della politica locale, ma anche di un sospettoso e grave silenzio generale.

Dal settembre del 2016, dragare i fondali per eliminare i sedimenti contaminati nelle Aree Sin, come Augusta, è diventato davvero difficile. Per la complessità del dragaggio e dello smaltimento dei rifiuti i costi necessari sono lievitati vertiginosamente, tanto da diventare proibitivi oltre che complessi dal punto di vista tecnico.

Per quel che concerne i sedimenti marini, in particolare la gestione nelle aree portuali, alcuni progetti si rivelano all’avanguardia, ma troppo costosi con piani di dragaggio, trattamento e stoccaggio. In Italia nel recente passato si tendeva a riversare al largo il materiale dragato nei porti, spesso fortemente contaminato, com’è avvenuto per la rada di Augusta per circa 50anni con evidenti danni per gli ecosistemi marini; dal 2016, questo materiale, secondo i livelli di contaminazione, deve essere stoccato in discarica o in apposite casse di colmata realizzate nei porti stessi o in aree limitrofe.

Per la mancanza di norme che regolavano la materia, per decenni i colossi della chimica e della raffinazione hanno inquinato i corsi d’acqua, le falde acquifere, l’aria, il mare e la terra. Un’apocalisse che inizia la sua corsa ad Augusta nel lontano 1949 con l’avvento della Rasiom di Angelo Moratti, poi ceduta Esso e ora di proprietà degli algerini. Ma lo spartiacque e la prova provata dell’avvelenamento (dopo l’entrata in vigore delle norme a difesa dell’ambiente) che da sempre ha inquinato l’ambiente, rimane l’inchiesta nata per l’errore di un tecnico che voleva pulire a suo modo con dell’acido la condotta in metallo da dove il mercurio veniva scaricato in mare che diventò di colore rosso a causa della ruggine che si scioglieva e per questo denominata “Mare Rosso”. Un’inchiesta scattata nel 2003, coordinata dal procuratore capo Roberto Campisi e affidata al sostituto Maurizio Musco, che fece epoca e storia, squarciando per la prima volta i segreti del petrolchimico. Le indagini furono portate a termine dalla Guardia di finanza di Siracusa al comando dell’allora colonello Giovanni Monterosso.

E tutto questo, come dirà a caldo nella conferenza stampa il procuratore capo all’epoca dei fatti, Roberto Campisi: “…con grande disprezzo della vita umana nello smaltimento dei rifiuti con tanta arroganza e un’inaccettabile logica”.

Il principale capo d’imputazione contestato agli accusati, era il delitto ambientale previsto dall’articolo 53 bis del Decreto Ronchi, poi articolo 260 del Codice ambientale, per aver costituito una “associazione per delinquere finalizzata al traffico illecito d’ingenti quantità di rifiuti pericolosi contenenti mercurio”.

Dopo il sequestro giudiziario e un lungo fermo, l’impianto Cloro Soda ripartì con una sola delle tre linee per essere poi fermato fortunatamente e definitivamente nel novembre 2005: si accorsero dopo la strage che era troppo inquinante. Ancor più grave il fatto di aver tentato di farlo continuare nella sua corsa criminale e che non si può davvero sopportare. Inquinare, sapendo di avvelenare la gente, ogni cosa vivente.
La svolta dell’inchiesta quando nei documenti della Montedison, già proprietaria dell’impianto Cloro Soda, a leggere alcuni documenti segreti, ritrovati all’interno degli archivi della stessa società, dal 1958 al 1980 avrebbe scaricato in mare 500 tonnellate di mercurio (ma in realtà la quantità rimane indefinita). Per la Procura di Siracusa la scoperta bastò a far decadere buona parte delle accuse all’Enichem e i reati più gravi agli indagati nell’indagine denominata “Mare Rosso”; in particolare l’associazione per delinquere, l’avvelenamento doloso del mare e del pesce, le lesioni personali per le malformazioni neonatali. Derubricato il grave reato iniziale, restava solo il traffico illecito dei rifiuti.
I vertici dell’Enichem sotto la pressione giudiziaria, nonostante fosse caduta l’accusa delle lesioni per le malformazioni, decisero di corrispondere volontariamente a 101 famiglie di bambini malformati e alle donne che avevano preferito abortire prima della nascita di un figlio destinato a nascere malformato, un rimborso variabile in base alla gravità della malformazione, tra i quindici mila e un milione di euro, per un totale di ben 11 milioni di euro più le spese legali. Un caso unico, dove una società gravemente accusata, poi prosciolta, decide di risarcire le vittime d’inquinamento senza alcuna richiesta da parte dei danneggiati.
La giustizia penale non fu la sola a occuparsi del triangolo petrolchimico Priolo, Melilli, Augusta. Già la legge 426/98, prima delle varie inchieste aveva dichiarato la rada di Augusta e il territorio del Petrolchimico siracusano “Sito d’interesse nazionale ai fini di bonifica” (Sin Priolo). Restava da capire, però, a chi spettava sborsare i soldi necessari per bonificare il territorio e il mare di tutta quell’enorme quantità di veleni. Malformazioni a parte, infatti, l’inquinamento rimane attivo e tutte le società che hanno operato nel petrolchimico siracusano vi hanno contribuito. Lo Stato voleva fargli pagare il conto salato ma trovò un’opposizione dura e basata sul principio: “Poiché non è chiaro quanto ogni società, ha inquinato, non si può stabilire in che modo spartire gli oneri della bonifica”.

L’allora Ministro per l’Ambiente, la siracusana Stefania Prestigiacomo, aveva trovato un’altra soluzione pur di fare le bonifiche, anche se una parte era a carico dello Stato. Siccome hanno inquinato tutti, paghino tutti i danni provocati, con la ripartizione delle somme, con una buona parte a carico del ministero dell’Ambiente e la rimanente somma suddivisa tra le industrie, mettendo a disposizione già nell’ottobre 2008 una cospicua somma di denaro pubblico. Ma la richiesta di pronunciamento della Corte di Giustizia europea è precedente alla decisione del Ministero di far pagare la spesa sia alle industrie, sia alla collettività, quindi non fu presa in considerazione.

E se da un lato le industrie hanno in buona parte riparato il danno a proprie spese delle bonifiche nei loro siti, c’è da chiedersi se mai le bonifiche nelle aree a terra inquinate o a mare si faranno, visto che insiste l’eterno dubbio di chi deve tirare fuori i soldi. E non è detto che si possano fare anche con i finanziamenti aperti da parte dell’Europa perché il danno è enorme e la normativa complessa. Il controverso sarebbe stato insinuato dalle stesse società che in origine avrebbero dovuto pagare per ripulire i fondali della Rada di Augusta. La risposta, con questi lustri di luna, è simile a quella scritta nelle cartelle dei condannati all’ergastolo alla voce “fine pena”: mai.
Scrivono i giudici amministrativi: “…sul fondo del mare c’è tanto di quel mercurio che se si prova a rimuoverlo, si rischia di rimetterlo in circolo e spargerlo ancora di più a causa delle correnti”, confermando già allora la notizia riportata dalla biologa Mara Nicotra che nel servizio di RaiTre riportò le risultanze delle ricerche eseguite dal Cnr con la conferma che insiste nel mare da queste parti tanto mercurio. È anche la motivazione tecnica giuridica dei giudici del Tar chiamati in causa. La soluzione, secondo questa teoria, sarebbe più deleteria del male stesso. La cosa molto interessante, che si creda, oppure no, è l’ipotesi del rimescolamento pericoloso dei sedimenti giacenti. Nella sentenza 1254 del 20 luglio 2007 si legge che la tipologia e le modalità degli interventi come imposti dal Ministero, sarebbero affidate a tecniche non efficienti, non efficaci e/o comunque irrealizzabili e come tali anche pericolosi per l’ambiente e per la salute umana.

I mille segreti sulla quantità di sedimenti velenosi in mare ci portano a dire che tutti hanno taciuto e che la rada di Augusta fu dragata una decina di volte dal Dopoguerra in poi. Negli anni il dragaggio fu ripetuto più volte nelle zone da utilizzare. Ma in occasione della crisi del Canal di Suez, per far entrare nel porto megarese le super petroliere, i fondali furono scavati quasi tutti a quota meno 22 metri, e poi a seguire per eliminare alcune secche, per i dragaggi a ridosso dei rispettivi pontili, oltre ad abbassare i fondali nei pressi dell’imboccatura di Scirocco, un canale centrale su richiesta dai Piloti del porto e dalla Capitaneria. E ancora, per la realizzazione della Darsena Servizi e altri ancora di minore portata.

Tutti i fanghi dragati, diventati sedimenti nei fondali fuori dalla rada di Augusta misti a idrocarburi e veleni d’ogni genere e natura che sommarono negli anni una montagna di fanghi contaminati. I dati approssimativi parlano di oltre 60 milioni di metri cubi nel totale che furono smaltiti negli Anni Sessanta, Settanta, Ottanta e Novanta, scaricati in grande quantità a tre miglia dall’imboccatura principale della rada di Augusta, oltre ai circa 18 milioni giacenti ancora nei fondali del porto megarese e nel seno del Priolo, per un totale stimato tra dentro e fuori la rada di circa 85 milioni di metri cubi. Sedimenti che finirono in gran parte nel vallone sottomarino chiamato “degli Inglesi” che insiste nell’asse parallelo della costa sud est della Sicilia Orientale. Questa è buona parte della Storia, ma i dragaggi, le analisi, la forma e la sostanza furono arricchiti dalla corruzione a ventaglio, con tanti interessi diffusi e tanti attori e registi. Un fiume di denaro della Cassa per il Mezzogiorno che scorreva pieno di soldi per circa mille miliardi delle vecchie lire in circa 50anni per i lavori della diga foranea, l’ampliamento dei servizi e i dragaggi nella rada, per la costruzione del porto commerciale e della Darsena Servizi e tanto altro ancora. Il tutto, sempre condito con l’inquinamento libero. Veleni di ogni tipo, residui pericolosissimi della lavorazione industriale. Tonnellate di questi rifiuti contaminate sono state sversate direttamente nel mare della rada di Augusta per decenni, come scrisse più volte il Pretore di ferro di Augusta negli Anni Settanta, Antonino Condorelli.

È questa una terra martoriata da incuria e abbandono, degrado. Ancora oggi si registra una forte contrapposizione tra i soggetti che a vario titolo, e non sempre sostenibile, dicono la loro, e non mancano le perplessità e i nodi da sciogliere. Un diritto negato per le popolazioni delle zone di poter contare su una vita normale, e dove non sarà più possibile poter vivere senza morte e dolore, nel turismo sanitario collettivo tra controlli, chemioterapie, cure palliative e degenza ospedaliera.

Concetto Alota

 

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