Nel petrolchimico siracusano abbiamo già assistito all’abbandono del territorio industriale, con un’immagine negativa di cui sono ancora in piedi gli “scheletri” abbandonati, come la vecchia Sincat e altri. Da sempre associati a luoghi di sofferenza, dove si lavorava in condizioni pietose: polveri di concimi, mercurio in libera uscita, cielo, mare e terra inquinati, segnati negativamente dal loro carattere di marginalità urbana e sociale, molto spesso animati solo da degrado e abbandono.
In Italia, secondo dati Istat, risulta che il 3% del territorio italiano è occupato da aree industriali dismesse, e tutte con problemi di inquinamento e rischio per la salute. Gli interessi delle industrie e le bonifiche non vanno a braccetto, ma ci sono dei casi in cui è stato possibile conciliare con soluzioni più idonee la valorizzazione dell’ambiente. Una semplice questione di onestà e buon senso politico.
I tumori sono la prima causa di morte connessa al lavoro nell’Unione europea. Il 53% circa delle morti collegate al lavoro è dovuto a tumori, il 28% a malattie cardiovascolari e il 6% a disturbi respiratori. A causa del contatto con sostanze cancerogene, i lavoratori di alcuni settori sono particolarmente a rischio. Fra i più colpiti troviamo il settore delle costruzioni, l’industria petrolchimica, automobilistica e quella manifatturiera, tessile e quella della trasformazione alimentare, il settore del legno e sanitario.
A parole si parla da decenni di bonificare i luoghi contaminati, elaborando programmi di rivitalizzazione della zona industriale siracusana, ma finora solo una piccola parte risulta bonificata dalle industrie per propria convenienza.
Ma ora il pericolo di abbandono delle attività industriale arriva dal settore della raffinazione, che sta attraversando un momento di difficoltà. Nei fatti, si sta concretizzando in una riduzione della produzione, chiusure degli impianti o avvio di percorsi di chiusura totale o riconversione del settore ai biocarburanti. Per il petrolchimico siracusano si parla ormai da anni della chiusura graduale delle raffinerie. E se è vero che la Storia di ripete, ecco che i rischi sono già in agguato.
Dopo anni tra luci e ombre, per i sindacati è arrivata l’ora di avviare un serrato confronto serio e senza la classica volpe sotto l’ascella, con i massimi livelli istituzionali, per dare risposte concrete. Reclamano la coerenza con gli impegni intrapresi, evitando, in tal modo, di generare irrequietezza tra il personale in attività, compreso l’indotto, oltre che all’Isab-Lukoil, ma anche nelle altre realtà della zona industriale siracusana già in allarme. Quello che non si potranno cambiare sono i conti economici e nemmeno procedere con le bonifiche delle tante discariche tra interessi e connubi, ammiccamenti, grida, sussurra e pochi soldi a disposizione.
Le raffinerie situate in zone industrializzate come quella siracusana, sono in calo, mentre nuove costruzioni crescono in paesi in via di sviluppo. Lo scenario appare completamente diverso, sebbene l’idea di raffineria, verticalmente integrata, sia ancora un elemento chiave del panorama settoriale, con accordi commerciali, nuove strutture, strategica ubicazioni e innovazioni tecnologiche che stanno estendendo l’attività di raffinazione a luoghi e contesti finora sconosciuti. Molte compagnie petrolifere internazionali hanno gradualmente abbandonato il settore della raffinazione. La costruzione di nuovi impianti si sta espandendo, non solo nelle zone di produzione del petrolio, ma anche nei Paesi consumatori fuori dell’Unione europea, dove le norme antinquinamento sono molto permissive.
Per l’Italia, la capacità di raffinazione collocata soffre e cerca nuovi orizzonti per uno sviluppo naturale dell’attività. A causa delle normative di tutela dell’ambiente sempre più severe, le raffinerie non hanno avuto altra scelta, se non diventare più “verdi” con costi che non possono sostenere, o chiudere. In particolare, le rigorose norme nazionali sull’inquinamento e il controllo delle emissioni hanno innescato un ciclo di profondi cambiamenti. Così come gli impianti di cogenerazione sono molto meno inquinanti delle tradizionali centrali elettriche, ma la redditività è comunque in forte crisi. Appare inevitabile che gli sforzi per costruire raffinerie petrolifere eco-compatibili si scontrino con la realtà dei fatti: il mercato è crollato e il petrolio di scarsa qualità disponibile per la raffinazione è più inquinante.
Ed ecco la necessità di ridurre i costi per compensare la contrazione dei margini di profitto, unitamente all’inasprimento dei requisiti ambientali e alle nuove opportunità offerte dalle tecnologie di ultima generazione, ha spinto al rialzo l’efficienza media delle raffinerie. Una prova evidente è senza dubbio l’utilizzo più proficuo dell’energia, ma il mercato non consente di fare progetti a lungo termine. La crisi stavolta appare grave e davvero dietro l’angolo.
Concetto Alota