C’era davvero bisogno di una conduzione così ferrea e inflessibile? Forse sì. Dopo anni di festival sempre più pop, sempre più aperti alle contaminazioni, il ritorno a un’impostazione più rigorosa sembrava quasi necessario. Ordine, controllo, ritmi serrati: la macchina del Festival quest’anno scorre senza sbavature, senza sorprese, senza il caos che in passato ha regalato momenti di spettacolo indimenticabili e, diciamocelo, anche qualche imbarazzo. Ma è proprio questo che serve a Sanremo? O una direzione troppo rigida rischia di ingabbiare quella magia imprevedibile che rende il Festival un evento unico?
E poi c’è la musica. Dopo anni difficili, dopo un periodo storico segnato da incertezze e disillusioni, c’era bisogno di un Sanremo pieno di canzoni che parlano di sofferenza, di amori finiti, di malinconia? Forse sì, perché la musica è lo specchio della società e il pop italiano ha sempre fatto della sofferenza amorosa il suo cavallo di battaglia. Ma forse no, perché in un tempo in cui tutti cercano leggerezza, speranza, un motivo per sorridere, questa edizione del Festival appare come un lungo viaggio nella tristezza collettiva.
Tranne qualche eccezione, il fil rouge che lega la maggior parte delle canzoni è la fine di una storia, il dolore per ciò che è stato e non è più. Bellissime, intense, ma anche ripetitive nel loro racconto di un amore che si spezza e di un cuore che fatica a rimettersi in piedi. Possibile che non ci sia spazio per la celebrazione dell’amore che nasce, della felicità pura, della gioia che la musica può e deve trasmettere?
A riportare un po’ di sorriso ci pensa Nino Frassica, presenza scenica inossidabile e memoria storica della leggerezza italiana. Il suo ruolo è quello del contrappunto necessario, di un’ironia che non ha bisogno di urlare per farsi sentire. La speranza è che il Festival sappia bilanciare questo equilibrio tra serietà e intrattenimento, tra il rigore della conduzione e la libertà dello spettacolo.
Per ora, incrociamo le dita: speriamo di evitare le classiche brutte figure all’italiana e di vedere, invece, esaltati gli elementi che ci rendono unici nel mondo. La nostra cultura, il nostro talento, il nostro stile. Perché Sanremo, alla fine, è sempre e solo questo: la fotografia di ciò che siamo, nel bene e nel male.