Santa Sofia, l’Islam strumento di potere assieme al nazionalismo: una grave ferita per i cristiani

di Giovanni Intravaia

Pochi giorni fa il Presidente turco Recep Tayyip Erdoğan con un decreto, ha ordinato la riconversione della basilica di Santa Sofia di Istanbul in una moschea. Con il decreto, Erdoğan ha trasferito il controllo della basilica – considerata dall’Unesco patrimonio dell’umanità – al Direttorato degli affari religiosi.

Il decreto è stato firmato dopo che il Consiglio di Stato, il più alto tribunale amministrativo della Turchia, ha stabilito l’illegittimità della decisione con cui nel 1934 il primo presidente turco Mustafa Kemal Atatürk aveva trasformato Santa Sofia, all’epoca una moschea, in un museo.

Dedicato alla Sophia (la sapienza di Dio), l’edificio vive così una nuova svolta. Dal 537 al 1453 fu cattedrale greco-cattolica, poi ortodossa e sede del Patriarcato di Costantinopoli, a eccezione degli anni tra il 1204 e il 1261, quando i crociati la convertirono in cattedrale cattolica di rito romano. Divenuta moschea ottomana (dal 1453 al 1931), nel 1935 fu sconsacrata e trasformata in museo. Fino, appunto, al decreto del 10 luglio di quest’anno, che riapre Santa Sofia al culto islamico.

Tutti questi passaggi fanno capire quanto l’edificio sia sempre stato simbolico e quindi utilizzato di conseguenza.

Che Erdoğan volesse la riconversione di Santa Sofia era noto. La questione è sempre stata usata dal leader nei momenti di difficoltà politica, sia per distogliere l’attenzione dal calo di consensi e dalla crisi economica sia per compattare il popolo attorno agli ideali religiosi, in funzione anti-occidentale.

Numerose le reazioni contrarie per ragioni storico-politiche alla decisione di Ankara. In tanti sostengono che si tratta di una provocazione di quel nazionalismo di cui fa prova il presidente Erdogan e la sua decisione ha sollevato non poche reazioni critiche. «Una mossa politica più che religiosa» l’ha definita il presidente della Comuntà di Sant’Egidio, Marco Impagliazzo. «I musulmani di Istanbul – si legge in un pronunciamento del Patriarcato caldeo guidato da Louis Raphael Sako – non hanno bisogno di una nuova moschea a Istanbul, dove ci sono già innumerevoli moschee». Il pronunciamento della Chiesa caldea si conclude con un’invocazione rivolta a Dio Onnipotente, affinché sia Lui a liberare l’umanità «dall’estremismo e dalla politicizzazione delle religioni».

Un anno fa Erdoğan aveva spiegato che la riconversione di Santa Sofia in moschea sarebbe stata una risposta alla decisione di Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale d’Israele, dopo di che, per festeggiare l’anniversario della presa di Costantinopoli (l’antico nome di Istanbul) da parte dei turchi, il presidente partecipò a una cerimonia durante la quale, per la prima volta da quasi un secolo, all’interno di Santa Sofia un imam recitò versi del Corano.

Insomma, siamo di fronte a un’operazione politica che utilizza la religione in senso nazionalistico. Operazione in atto da tempo (si pensi, per esempio, al divieto di vendere alcolici nei pressi delle moschee o alla cancellazione del divieto di indossare il velo nelle università, ma anche alla costruzione della gigantesca moschea Büyük Camlica progettata per contenere 63 mila fedeli e costata quaranta milioni di dollar) e in controtendenza rispetto alla laicità voluta dal padre della Turchia moderna, Kemal Atatürk (presidente dal 1923 al 1938). Infatti, se Atatürk volle fare di Santa Sofia un museo, Erdoğan sta seguendo il cammino opposto, ma la molla è comunque e sempre la politica.

Alla guida del Paese (come primo ministro e poi da presidente) da quasi vent’anni, Erdoğan nelle ultime elezioni è stato riconfermato fino al 2023, ma il suo partito è in calo e nelle amministrative ha perso per due volte proprio a Istanbul, la città in cui Erdoğan è nato e della quale fu sindaco negli anni Novanta. Di qui il tentativo di recuperare terreno utilizzando l’elemento religioso come coagulante. E di qui il decreto su Santa Sofia, che nelle intenzioni del Presidente vuole mostrare come egli sia ancora, di fatto, il dominus della metropoli e della Nazione.

In Turchia il 98% della popolazione è composto da musulmani (70% sunniti, 30% sciiti). Il restante 2% comprende ebrei sefarditi, greci, armeno-ortodossi, cattolici di rito bizantino e armeni protestanti. Se il Paese, in base alla Costituzione, è ufficialmente laico, si può dire che siamo in realtà in presenza di un Islam di Stato. Di tutto ciò che concerne la religione si occupa un organo statale centralizzato, il Dipartimento per gli affari religiosi, che tra i suoi compiti ha quelli di controllare non solo le funzioni religiose (tutti i discorsi degli imam devono essere sottoposti alla sua valutazione) ma perfino i principi morali dell’Islam.

La questione di Santa Sofia va quindi vista in quest’ottica: di un Islam strumento di potere, assieme al nazionalismo, per fare della religione una condizione indispensabile di identità e di appartenenza. Il tutto per esercitare un controllo politico sempre più serrato. L’esatto contrario del classico Stato islamico, nel quale è la religione a controllare la politica.

Santa Sofia, in questo quadro, è per Erdoğan anche un simbolo da proporre al di fuori dei confini turchi: egli sa bene infatti che il richiamo al nazionalismo e all’identità religiosa può avere facile presa in un momento di crisi generale, resa ancor più forte dall’epidemia di Covid-19.

Come spesso accade in politica, la prova di forza di un leader nasce da uno stato di debolezza. Il che non la rende meno pericolosa!

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