Storia – La mafia e la droga nel mondo con migliaia di decessi

Nella sola città di New York i morti passavano da circa 150 in un anno ad oltre 900. L’altra esigenza alla base dei vertici mafiosi di Arlington e di Palermo era quella di razionalizzare il traffico internazionale della droga e del contrabbando (sigarette, preziosi, valuta). Essa derivava dall’esperienza che l’organizzazione mafiosa aveva ormai acquisito nel decennio precedente (1948-57), dalla necessità di sostituire Cuba, ormai perduta con la vittoria di Castro, come base di appoggio per l’ingresso illegale della droga negli USA e nel definire il modo e le funzioni dell’organizzazione mafiosa siciliana. Nel primo rapporto che il Sottocomitato per gli stupefacenti della nostra Commissione parlamentare predispose alla fine della V Legislatura (1972) sono sufficientemente delineati sia i personaggi che occupano la scena del primo decennio del dopoguerra nel campo della droga, sia il cammino che l’elemento base, cioè l’oppio, compiva, partendo dal Medio Oriente, per trasformarsi in morfina e quindi in eroina e gli enormi profitti che ne derivavano. Intorno agli anni ’50 in Italia esistevano le condizioni ideali per l’impianto di un’organizzazione criminale per il traffico dei narcotici e per il contrabbando. Mancava una qualunque politica repressiva per questi settori delinquenziali, che non creavano problemi all’interno perché l’uso degli stupefacenti era pressoché ignoto, e quindi non esisteva nessuna sensibilizzazione né presso l’opinione pubblica, né presso gli organi della sicurezza per combattere fenomeni delittuosi che avevano matrice lontana. La ripresa dei traffici marittimi ed aerei costituì il canale principale per il contrabbando. Alla vigile attenzione dell’organizzazione mafiosa non sfuggiva l’insieme di questi elementi -ed essi furono sfruttati subito fino in fondo, con profitti che si rivelarono imponenti e in condizioni di quasi impunità. La vicenda della società Schiapparelli, largamente illustrata nel primo rapporto del Sottocomitato della nostra Commissione, è emblematica. Insensibilità, lassismo, compiacenze e qualche volta connivenze in larghi settori dell’apparato pubblico, non escluso quello politico, furono preziosi alleati dell’organizzazione manosa, e obiettivamente, anche se non consapevolmente, ne rafforzarono il potere, la resero più spavalda, creando le condizioni per un suo sviluppo verso forme più aggressive. « Alla fine della guerra — scrive Me Clellan — gli sfruttatori ricominciano a trafficare in quel campo (della droga) perché ritenuto il più remunerativo delle imprese criminose. Ciò avvenne più vantaggiosamente che altrove in Italia, dove la mafia, sotto la guida di Luciano, nel frattempo deportato dagli Stati Uniti, trasse ottimi vantaggi dalle condizioni del dopoguerra ». Il signor Gaffney ha testimoniato che la mafia « mise su tutto il traffico. Essa aveva trovato un vuoto assoluto e dovette imbastire la cosa di sana pianta ». La situazione peggiore tuttavia non fu quella degli anni ’50, ma la successiva, dal 1958 in poi, quando perdurarono per un altro decennio circa, come vedremo, le condizioni di lassismo, insensibilità e compiacenza che avevano favorito l’impianto ed il radicarsi dell’organizzazione, malgrado una più attenta sensibilizzazione al problema dell’opinione pubblica e le pesanti accuse che vennero mosse all’Italia nell’apposito organo delle Nazioni Unite, istituito per combattere il traffico della droga. Il metro per valutare l’atteggiamento degli organi della sicurezza pubblica verso il fenomeno mafioso e la strategia del crimine che esso andava elaborando sono dati dal vertice dell’albergo delle Palme di Palermo. Un avvenimento di tal genere non poteva essere né occasionale, né gratuito. Se dagli Stati Uniti si muove Io stato maggiore delle più potenti « famiglie » di « Cosa Nostra » con alla testa il vertice della famiglia Bonanno, una ragione doveva esserci. Un simile consesso non poteva passare inosservato e la prima e più elementare regola di comportamento doveva essere quella di cercare di capire il perché, il movente che spingeva Senato della Repubblica. Così potenti personaggi, ben noti a tutte le polizie, a riunirsi ed a discutere. Ebbene, tutto quello che sa la Questura di Palermo -sono due biglietti di servizio dell’agente della guardia di Pubblica sicurezza Lo Piccolo, dell’ufficio stranieri, che segnala: a) l’arrivo in gruppo nell’albergo delle Palme di Palermo, in data 12 ottobre 1957 del Sorge, del Galante, del Bonanno; b) l’incontro avvenuto lo stesso giorno nel notissimo albergo tra i predetti Bonventre Giovanni, Genco Russo, accompagnato da « cinque sconosciuti », e il Garofalo Francesco; e) l’incontro avvenuto nel pomeriggio dello stesso giorno e nel medesimo luogo tra il Genco Russo, accompagnato da « 12 sconosciuti », e Galante, Bonanno, Vitale e Di Bella; d) l’incontro avvenuto il 16 ottobre 1957 sempre nello stesso albergo tra Galante, Bonanno, Bonventre, Garofalo e Gaspare Magaddino; e) la partenza in aereo per Roma, lo stesso giorno 16 ottobre, di Galante, Bonanno e Bonventre, mentre il precedente giorno 15 era partito Santo Sorge. L’unica frase percepita in quattro giorni di riunioni e (riferita da un confidente al Commissario di Pubblica sicurezza Giuliano della Questura di Palermo è la seguente massima pronunciata da Genco Russo: « quannu ci sunnu troppi cani supra un ossu, beato chiddu chi po’ stari arrasu » (quando ci son troppi cani su un osso, beato quello che può starsene lontano). La totale mancanza di adeguate informazioni è la conseguenza della sottovalutazione della pericolosità del fenomeno mafioso, tipica nel periodo in esame da parte degli organi della sicurezza pubblica. Quello che è sorprendente, però, e che non può essere giustificato dal più benevolo e comprensivo osservatore, è la mancanza di ogni interesse per approfondire informazioni che d’acchito avrebbero dovuto smuovere per la loro rilevanza e risonanza il meno furbo di un qualsiasi poliziotto della Questura di Palermo. Ma l’azione della Questura e degli altri organi di polizia non è che l’ultimo anello di una catena di inazione o di incapacità degli organi politici a combattere il fenomeno mafioso, e qualche volta il non combatterlo equivale a servirsene od utilizzarlo. L’accenno, per esempio, di cinque e dodici « sconosciuti » che parteciparono al vertice e accompagnarono Genco Russo è di una superficialità senza limiti. In nessun modo può ritenersi possibile che la Questura di Palermo non fosse nelle condizioni di individuare gli « sconosciuti » prima della fine delle riunioni, che si tenevano in uno dei saloni del centralissimo e lussuoso albergo palermitano. Del resto questa spavalda manifestazione di sicurezza dell’organizzazione manosa è la conseguenza dell’inefficienza degli organi della sicurezza pubblica, che i boss non ignorano e sanno valutare. Nello stesso modo sapranno valutare, ed adotteranno ben altre misure per difendersi, il coraggio, la preparazione, l’instancabile iniziativa che Questura, Carabinieri e Finanza avranno a partire dalla metà degli anni sessanta, nell’affrontare la mafia nelle .sue varie manifestazioni ed organizzazioni. Naturalmente l’insipienza degli organi della pubblica sicurezza non è che il riflesso della insensibilità del potere politico, intorno agli anni ’50, nel valutare il fenomeno mafioso per affrontarlo e distruggerlo, o quanto meno contenerlo nella sua pericolosa evoluzione. Probabilmente se quegli « sconosciuti » partecipanti al vertice palermitano fossero stati individuati, si avrebbe avuto un quadro molto più preciso della evoluzione della « nuova mafia », quella che si staccherà dalle tradizionali condizioni agrarie legate al feudo, ed allo sfruttamento delle masse contadine, per collegarsi ai grandi interessi dell’edilizia, dei mercati ed infine del contrabbando e della droga. Avremmo avuto più chiara la successione che si preparava, verso la metà degli anni ’60, nell’organizzazione mafiosa ed il ruolo di grande importanza che vi avrebbero svolto i nuovi e più spietati capi, i La Barbera, i Greco, i Leggio, i Badalamenti, Russo per discutere insieme a Joe Bonanno, ai Magaddino, al Bonventre, non potevano essere « gregari », uomini di ondine inferiore, ma prestigiosi « picciotti » dalla ascesa già pronta e utilizzabili meglio e più che i vecchi capi-mafia del feudo verso le nuove avventure internazionali della droga e del contrabbando, con la manovra dei grandi profitti che ne derivavano. Il clima di scarsa operosità nella lotta alla mafia era tale in quegli anni che le stesse collaborazioni indispensabili per un coordinamento delle indagini tra autorità periferiche ed autorità centrali o tra .queste e gli organi internazionali idi vigilanza si riducevano a scarse e stantie formule burocratiche, prive di convinzione e di impegno. La Questura di Palermo informa l’Interpol del vertice palermitano in data 4 luglio 1958, cioè dopo nove mesi, inviando un .riassunto degli incontri avvenuti; più dettagliata è la relazione trasmessa il 6 ottobre 1959 dall’Ufficio Narcotici presso l’Ambasciata USA a Roma alla Divisione Polizia Criminale (Interpol) perché riferisce le indagini che su quel vertice ha eseguito il FNB degli Stati Uniti, e dalle quali era emerso « che un grappo idi individui costituito da italiani e cittadini USA, tra cui il Bonanno Giuseppe, si era riunito in alberghi della città di Palermo dal 10 al 20 ottobre 1957 per una serie di incontri relativi ai loro interessi criminali negli Stati Uniti ed in Italia ». Non esistono agli atti della Commissione parlamentare d’inchiesta mote e documenti da cui poter evincere atteggiamenti od iniziative del Ministero degli interni rispetto agli avvenimenti di quegli anni, che pure saranno di grandissima importanza nell’evoluzione dell’organizzazione manosa e quindi dei fenomeni di criminalità degli anni successivi. Se si dovesse trarre una qualche opinione da alcuni documenti acquisiti, non ci sarebbe che da riconfermare l’idea generale che le indagini si riducevano a prassi burocratiche prive di seri impulsi e di ogni razionale coordinamento, con sfasature da un ufficio all’altro che rasentano il farsesco, con un via vai di carte, fascicoli e personaggi che danno il senso dell’inutilità degli apparati. Allucinante è il caso di Davi Pietro: il Ministero degli interni con una nota del 18 agosto 1960 « riservata-personale », diretta al Questore di Palermo e firmata « pel Capo della Polizia », chiede di « fornire informazioni sul conto del Davi specificando se risulta che nei confronti del medesimo, titolare del passaporto n. 7876108, rilasciato da codesto ufficio in data 15-7 u.c. (cioè luglio ’60), pende istruttoria penale presso il Tribunale per contrabbando ed altri reati ». Il Ministero dell’interno è stato messo sull’avviso dalla Guardia di finanza (sempre nel 1960) perché il Davi è pregiudicato per associazione a delinquere, contrabbando e traffico di droga. Se il Ministero dell’interno avesse avuto una semplice scheda intestata al Davi avrebbe saputo subito che il personaggio era uno dei boss più agguerriti e pericolosi della mafia, aveva un curriculum di criminale abile e potente e che solo perché mafioso era riuscito a sfuggire, ed ancora oggi è latitante, ai giusti rigori della legge penale. Eppure esistono, quando il Capo della polizia chiede notizie, una miriade di informazioni che, sparse per uffici diversi, si contestano a vicenda, ma, se coordinate, avrebbero dato la -misura « di un uomo idi rispetto ». Questo in sintesi e solo a mo’ di esempio il coordinamento che ha fatto il Sottocomitato della nostra Commissione: Davi Pietro è nato nel 1907 ed è soprannominato Jimmy l’americano. Inizia molto giovane la sua attività criminale: nel 1925 viene fermato più volte per misure di pubblica sicurezza. Viaggia anche molto, il che per quel tempo è abbastanza insolito per un giovane mafioso nutrito e protetto dall’arretrata provincia della Sicilia occidentale. È a Brescia nel 1926, colpito da mandato di cattura; a S. Remo il 22 settembre dello stesso viene munito di « foglio di rimpatrio ». È a Milano nel 1935 ed ancora a S. Remo nel 1936 viene rimpatriato col foglio di via obbligatorio. A Milano nel 1939 viene implicato in un caso di omicidio e la locale Questura chiede (ma senza risultato) a quella di Palermo « ricerche, arresto e traduzione ».

Anticipatore di tempi in tempi ruggenti (quelli degli anni 70) è già parte rilevante nell’organizzazione del contrabbando e del traffico della droga. In Germania viene incriminato per traffico di 400 chilogrammi di cocaina e i suoi rapporti arrivano fino al Messico e nel Sud America. È in contatto con i trafficanti internazionali più agguerriti, come gli organizzatori di lanigeri, i famosi Burms, e con il còrso, non meno famoso, Pascal Molinelli. Nel dopoguerra Davi crea la più grossa organizzazione di contrabbando del tabacco del Mediterraneo. Nel 1950 è denunziato dalla Guardia di finanza per il contrabbando di 13.128 chilogrammi di tabacco estero, di cui 9.000 chilogrammi sequestrati. In Germania, sempre nel 1950, la polizia, in collaborazione con il servizio narcotici degli USA, lo accusa per il traffico di 300 chilogrammi di cocaina. Nel marzo 1952 la Questura di Palermo lo denuncia per tentato omicidio in rissa: si era sparato in un negozio per la vendita di orologi, ma la rissa non c’entrava per niente. Si scoprì dopo che il negozio era il paravento per un’organizzazione dedita al traffico clandestino di valuta della quale il Davi era il personaggio di primo piano, per cui ila sparatoria costituiva un regolamento di conti. Nel 1952 il Giudice istruttore del Tribunale di Palermo emetteva mandato di cattura, ma il Davi si è già reso latitante. Poi lo stesso giudice il 12 luglio 1952 con la sentenza lo rinviava a giudizio per rissa mentre lo proscioglieva dal tentato omicidio per legittima difesa, e revocava il mandato di cattura. Ma solo un mafioso di grande rispetto poteva azzardarsi a chiedere nello stesso anno 1952, il 14 ottobre, alla Questura di Palermo un certificato di buona condotta, per il nullaosta poi concesso dalla stessa Questura. Nel 1954 Davi è ancora nel mirino dell’Ufficio Narcotici USA: una segnalazione alla Guardia di finanza lo individua come capo di una organizzazione contrabbandiera in stretta alleanza con nomi prestigiosi come quello di Elio Forni. Eppure nel 1955 Davi si presenta al Consolato USA di Palermo per chiedere il ‘visto per gli Stati Uniti e come credenziali per giustificare la richiesta (allora i limiti per l’ingresso negli Stati Uniti erano molto rigorosi) presenta una lettera del cittadino americano Daniel Wolpert che conferma la necessità di vedere il Davi in j USA per il « commercio di prodotti farmaceutici » insieme ad Albert Burms, il noto contrabbandiere di Tangeri. Nel corso di un’operazione anti-contrabbando del 1957 uno dei fermati, tale Manetti Giovanni, dichiarava alla Guardia di finanza che a Palermo esistevano solo due potenti organizzazioni per il contrabbando del tabacco: quella di Ponente Gaspare e quella di Jimmy l’americano, cioè di Davi Pietro. Nell’aprile 1957 l’Ufficio misure di sicurezza e prevenzione della Questura di Palermo invia una lettera al Commissario di pubblica sicurezza di Palermo perché il Commissario stesso (non il Questore) prenda in attento esame la posizione di Davi che « in data 28 aprile 1950 est stato denunciato opera Nucleo Polizia Tributaria di Palermo contrabbando chilogrammi 13.128 tabacchi » al fine di fare pervenire alla Questura « ove se ne riscontrino gli estremi, motivata proposta per applicazione suoi confronti provvedimento diffida ». È .questo un esempio classico di insipienza sospetta perché, la Questura dovrebbe sapere tutto su uno dei più grossi mafiosi della città sulla quale dovrebbe vigilare, di lassismo burocratizzante perché è assurdo chiedere per lettera ad un Commissariato della stessa città quello che si può ottenere in pochi minuti con una telefonata, ima anche di favoreggiamento, non sappiamo fino a che punto consapevole, sicuramente sospetto, del gioco mafioso. Fra questi rivoli burocratici si perde la possibilità di individuare singole responsabilità, e tutto si diluisce nel gioco esasperato di competenze tra un ufficio e l’altro, in ‘modo che si innesta un gioco di « scaricabarile », come la Commissione di inchiesta in più occasioni ha potuto accertare, nel quale il vittorioso resta sempre il mafioso. Infatti il Commissario, a cui sono state chieste notizie, parte del gioco, risponde alla Questura: « dal 1952, epoca in cui venne denunciato per rissa (il Davi), non ha più dato luogo ad ulteriori rilievi con la sua condotta in genere. Egli è commerciante in preziosi con laboratorio ed uffici in Via Ionello 7, in società con D’Anna Michele, e versa in buone condizioni economiche. È sposato con prole e non risulta che mantenga rapporti con elementi malfamati o mafiosi », perciò il Commissario, tale dottor Campagna, « non ritiene di formulare la proposta di che trattasi », cioè la diffida. Val la pena di notare come pennellata finale che titolare del diritto di infliggere la diffida è, per la legge del 1954, il Questore e che, come la Commissione d’inchiesta ha più volte accertato, la (misura della diffida non ha ‘mai spaventato nessun mafioso e si è rivelata solo strumento di piccole persecuzioni locali. Naturalmente in mancanza di un coordinamento e di un ufficio centrale che raccolga tutti i dati per essere in condizione di trasmetterli in qualunque momento a tutti gli uffici periferici di vigilanza di ogni specializzazione, si verificano casi che sono allucinanti o rasentano il grottesco. Eccone uno che riguarda il nostro personaggio: lo stesso giorno, il 12 maggio 1960, arrivano alla Questura di Palermo due lettere, una del già noto Commissario di pubblica sicurezza dottor Campagna, che riconferma la sua precedente comunicazione di stima e di fiducia nel Davi e l’altra del Nucleo polizia tributaria della Guardia di finanza, che comunica l’arresto avvenuto a New York di Davi Pietro e Mancino Rosario, perché « gravemente sospettati di traffico di stupefacenti e preziosi ». Per concludere questa prima parte di un tipico esempio di comportamento palesemente improduttivo per qualsiasi azione anticrimine, c’è da aggiungere .che il Questore di Palermo non rispose neppure alla richiesta « riservata-personale » che il Ministero degli interni aveva a lui diretto in data 18 agosto 1960, tanto che lo stesso richiedente il 6 ottobre 1960 con una nuova lettera « riservata-personale » — doppia busta — « raccomandata » pregava di voler riscontrare la precedente richiesta. Quando il Questore risponde il 19 ottobre 1960 con lettera « riservata doppia busta », si guarda bene dall’esprimere una sua valutazione sul personaggio, che pure è ormai noto a tutte ile polizie; si limita a riferire le risultanze dei « pubblici registri »: che presso il locale casellario non sono annotate condanne penali, che la Guardia di finanza gli ha segnalato che il Davi è sospettato di traffico di stupefacenti, tanto che sarebbe stato fermato dalla polizia americana e canadese, che le sue condizioni economiche | sono buone e « pare che si interessi al commercio all’ingrosso di preziosi» (sic)! Al Davi viene rilasciato il passaporto il 30 maggio 1960, ma giusto perché il Tribunale di Roma ha disposto in tal senso per quanto riguarda il (processo per contrabbando che ivi è pendente, validità che è stata rinnovata per due anni, sempre perché il Tribunale non ha avuto nulla da obiettare. La divisione nei poteri del nostro apparato pubblico per comparti stagni funziona egregiamente per gli alibi reciproci: il Tribunale concede il nulla-osta perché giudica su un solo fatto, quello ‘del contrabbando, e non conosce, perché nessuno glielo ha mai detto, la personalità dell’imputato, ed il suo esteso curriculum criminale. Il Questore, che pure dovrebbe conoscere tutto, sia la posizione ufficiale nel processo pendente, sia quello che riferiscono tutte le polizie, è pago dell’autorizzazione del Tribunale che lo scarica di responsabilità. Il Sottocomitato d’indagine della Commissione parlamentare ha cercato di approfondire l’esame di questo ed altri simili fatti per poter dare un giudizio che, seppure non comporta l’adozione di sanzioni per responsabilità da colpire, dato anche il lungo tempo trascorso, è giusto che sia espresso per comprendere il difficile mondo mafioso, correggere gli errori del passato e suggerire proposte al Parlamento per adottare nuovi strumenti legislativi. Orbene sarebbe un errore attribuire la serie di questi incredibili comportamenti a disfunzioni dell’apparato, all’arretratezza del « sistema » della pubblica amministrazione, al lassismo dei singoli o alla compiacenza di pochi verso l’organizzazione mafiosa.

Dalla incredibile inettitudine a vigilare sul vertice mafioso di (Palermo fino alle compiacenze sul caso Darvi, tutto l’apparato preposto alla sicurezza pubblica si mostra incapace a combattere il fenomeno mafioso perché esso stesso è corroso dalle tarme invisibili, ma potenti della sottovalutazione manosa. Non è per caso che si lascia ad una sola guardia di Pubblica sicurezza di relazionare sugli incontri all’albergo delle Palme, così come non accade per caso che il Questore di Palermo prima di rispondere al Ministro sulla richiesta Davi .prepara tre minute (agli atti della Commissione) e nella prima datata 6 settembre 1960 cancella la notizia che risulta negli archivi e che qualcuno ha inserito: nel 1939 il Davi era ricercato dalla Questura di Milano perché ritenuto responsabile di omicidio, poi lascia dormire la pratica e finalmente decide la risposta, dopo il sollecito. Quando si manifesterà con decisione la volontà politica di combattere la mafia, cambierà il sistema, oltre che gli uomini, e le tradizionali lentezze burocratiche, le carenze dell’organizzazione saranno superate da volontà e decisione di agire con coraggio e tempestività. Lo stesso « caso Davi » è ancora il simbolo di questi mutamenti di indirizzo che si manifestano negli organi della sicurezza pubblica, nella Magistratura, nello stesso rapporto con uomini ed organizzazioni dell’apparato politico. Siamo praticamente al « dopo Ciaculli » (1963) da cui è possibile datare un nuovo metodo nella lotta alla mafia, grazie anche all’iniziativa della nostra Commissione parlamentare. Il 13 aprile 1964 il giudice istruttore del Tribunale di Palermo emette ‘mandato di cattura contro Davi per associazione a delinquere con Cavatalo, Buscetta, Torretta, personaggi tristi e famosi nell’organizzazione mafiosa. Con (rapporti del 28 luglio 1965, 15 dicembre 1965 e 23 febbraio 1966 la Questura di Palermo denuncia nuovamente Davi per associazione a delinquere unitamente a Badalamenti, Caramola, Forni, Greco Salvatore, Gambino Paul, La Barbera Rosario, Mancino Rosario. Al processo di Catanzaro il 22 dicembre 1968 Davi è condannato a 4 anni di reclusione; il 31 dicembre 1969 viene colpito da altro mandato idi cattura insieme con altre 53 persone per associazione a delinquere; infine fa parte del processo « dei 114 » di cui parleremo in seguito. Ma Davi si è reso latitante e, come riferiscono le segnalazioni di polizia, vane sono risultate le ricerche per catturarlo. Lo ritroveremo nella « cronaca nera » dei giornali nel febbraio 1975 quale presunto responsabile del rapimento ‘dell’industriale milanese ingegner Marcello Botta: malgrado l’età non più giovanile e le turbolenti esperienze precedenti, Davi si ritrova reinserito nelle attività della « quarta mafia ».

A cura di Concetto Alota

III parte – continua

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