I tre giovani carabinieri della scorta, il boss catanese Alfio Ferlito e un civile con la mansione di autista entrarono in una vecchia Mercedes utilizzata per le traduzioni dei carcerarti, stretti l’un l’altro, che da quel momento diventa la bara mobile che li trasporta verso l’appuntamento con la morte. Non hanno avuto nemmeno il tempo di difendersi. Colpiti seduti e inermi all’interno dell’auto che fu affiancata dalle due automobili dei killer che, con i fucili d’assalto e una potenza di fuoco inaudito, spararono contro il facile bersaglio. Non c’erano altre autovetture o motociclette staffette, come il caso necessitava. Una serie di colpe e omissioni che costarono la vita a cinque giovani che con leggerezza furono spinti al macello. Tutti morti sul colpo. Un errore di Stato dimenticato.
Nonostante i segnali di una recrudescenza criminale, fu sottovalutata l’organizzazione militare della mafia emergente e stragista di Riina e l’alleanza dei palermitani con i clan dei catanesi da parte dei ministeri di Grazia e Giustizia dell’Interno. Lo stesso errore si ripete con il delitto Dalla Chiesa, in cui sono gli stessi uomini a ordinare e ripetere la facile azione delittuosa, con le stesse dinamiche e le stesse armi. Entrambi i delitti avevano un denominatore comune: facevano comodo sia ai palermitani sia ai catanesi. L’intelligence territoriale di riferimento non adattò le informazioni in possesso con la realtà dei fatti; il risultato fu un massacro annunciato, dove un pericoloso detenuto, tre giovani carabinieri e un autista civile, poco esperto di traduzioni che sostituì quel giorno il padre, diretti tutti a sicura morte con tanta leggerezza e poca attenzione da parte delle istituzioni. Una strage che fu volutamente dimenticata in fretta, quella della Circonvallazione di Palermo. Non furono presi in considerazioni alcuni aspetti critici: la giovane età e la poca esperienza dei militari dell’Arma; il mancato addestramento per quel tipo di traduzione; le condizioni di quell’auto, una Mercedes scassata e non blindata; i segnali e le notizie certe di una feroce guerra in corso tra i potenti clan catanesi di Nitto Santapaola e di Alfio Ferlito, e lo spessore criminale di quest’ultimo, acerrimo nemico di Santapaola. Ferlito, era stato condannato a morte, anche contro il volere del clan dei Laudani, detti “mussi i ficurinia” dapprima, e con l’accordo del clan dei corleonesi per lo scambio di favore con l’omicidio di Carlo Alberto Dalla Chiesa, la fornitura della moto “rubata” a Siracusa e la fornitura dei fucili mitragliatori arrivati da Catania e utilizzati nella Strage e per il delitto Dalla Chiesa, pianificati in maniera scientifica: sapevano della traduzione già da tempo.
L’auto su cui viaggiava il mafioso Alfio Ferlito, alla guida il civile Giuseppe Di Lavore, 26enne di Enna, non appena giunta sulla circonvallazione di Palermo, fu affiancata da due autovetture di grossa cilindrata, rubate pochi mesi prima, da cui i killer esplosero numerosi colpi di fucile Kalashnikov e di lupara. Dopo il mortale agguato, il commando mafioso si allontanò, incendiando le auto che avevano usato, cambiando veicolo per non lasciare alcuna traccia.
La “Strage della circonvallazione”; l’attentato mafioso che fu messo in atto il 16 giugno 1982 sulla circonvallazione di Palermo. L’efferato criminale era diretto contro il boss catanese Alfio Ferlito, mentre veniva trasferito da Enna al carcere di Trapani; morì nell’agguato insieme ai tre carabinieri della scorta, autista della ditta privata che aveva in appalto il trasporto dei detenuti. Il mandante di questa strage era Nitto Santapaola, che da anni combatteva contro Ferlito, una guerra per il predominio sul territorio catanese, ma nella partita c’era anche lo sconfinamento nei territori di Siracusa, Enna e Messina, come si conformeranno dopo poco tempo.
Una strage che poteva essere evitata
“Quella strage poteva essere evitata. Bastava servirsi di una macchina blindata, affiancata da altre auto staffetta pronte a far fuoco, cambiare itinerario e considerare lo spessore di Alfio Ferlito. Carabinieri, poliziotti, finanzieri e confidenti, sapevano che il boss catanese Ferlito, era ormai un bersaglio vivente”. Così a caldo le reazioni degli ambienti investigativi e giudiziari, colleghi e familiari delle vittime. Un patto di sangue legava già da qualche tempo la mafia catanese con i clan mafiosi di Palermo. Il nemico numero uno di Alfio Ferlito, era Nitto Santapaola, diventato da poco fratello di sangue con Totò Riina. Interessi diffusi, legati al racket delle estorsioni, agli appalti pubblici di cui indagava Dalla Chiesa, al traffico della droga e quello delle armi. Un giro di miliardi, ma anche di tanti morti ammazzati. Nel 1981 in Sicilia in soli sei mesi ci furono oltre cento morti. Ma l’ordine tassativo era di ammazzare Alfio Ferlito, 36 anni, metà della vita passata nel cuore del racket malavitoso del quartiere S. Cristoforo di Catania.
Le vittime della Strage
Carabiniere Salvatore Raiti. Nato a Siracusa il 6 agosto 1962. Il 7 marzo 1981 si arruolò nell’Arma dei carabinieri; ammesso a frequentare il corso d’istruzione presso la scuola allievi carabinieri di Iglesias (CA). Al termine del ciclo formativo fu promosso carabiniere il 19 settembre 1981 e destinato l’11 ottobre successivo, alla Stazione carabinieri di Enna, dove restò fino al tragico 16 giugno 1982; atto di valore per il quale fu insignito della Medaglia d’Oro al valor civile “alla memoria”.
L’appuntato dei carabinieri, Silvano Franzolin. Nato a Pettorazza Grimani, Rovigo il 3 aprile 1941; il 18 novembre del 1959 si arruolò nell’Arma dei Carabinieri, ammesso a frequentare il corso d’istruzione presso la scuola allievi di Torino. Al termine del ciclo formativo integrato presso la scuola dell’Arma di Roma per il passaggio nel reparto a cavallo; fu promosso Carabiniere il 31 agosto 1960 e destinato il 30 novembre successivo al Gruppo squadroni a Cavallo di Roma. Prestò servizio presso le Stazioni Carabinieri di Brescia dal 30 giugno 1961, Butera, Caltanissetta, dall’8 marzo 1964, Calatafimi, Trapani, dal 17 ottobre 1964, Aidone, Enna, dal 7 settembre 1967, Tortorici, Messina, dal 21 marzo 1968, Maniace, Catania, dal 15 aprile 1970 e a Enna dal 4 maggio 1979, dove restò fino al tragico 16 giugno 1982, data in cui compì l’atto di valore. Medaglia d’Oro al valor civile “alla memoria”.
Il carabiniere scelto, Luigi Di Barca, nato a Valguarnera, Enna, il 10 aprile 1957. Si arruolò nell’Arma dei carabinieri il 14 settembre 1974 e, dopo aver frequentato il corso d’istruzione presso la scuola allievi carabinieri di Roma, fu promosso carabiniere il 15 aprile 1975 e trasferito al reparto Comando della Legione Carabinieri di Catanzaro, dove prestò servizio fino al 20 maggio 1976, quando fu trasferito alla Stazione carabinieri di Riace, Catanzaro, dove restò fino al 2 dicembre 1980, quando fu assegnato alla stazione carabinieri di Catanzaro principale. In data 15 aprile 1981 ottenne la promozione a Carabiniere Scelto. Il 30 novembre 1981, venne destinato prima alla Legione carabinieri Messina e il successivo 4 dicembre al Nucleo operativo e radiomobile di Enna, dove prestò servizio fino al tragico 16 giugno 1982, quando perse la vita a seguito dell’agguato mafioso. Per il valore dimostrato, fu insignito della Medaglia d’Oro al valor civile “alla memoria”. Fonte dei dati:
Nell’agguato morì anche il giovane Giuseppe Di Lavore, 27 anni, autista della ditta privata del padre che aveva in appalto il trasporto dei detenuti, il quale aveva sostituito proprio quel giorno il padre. Ebbe la medaglia d’oro al valor civile.
Ma chi era davvero quel boss che per ucciderlo furono sacrificati tre giovani carabinieri e un giovane autista che quel giorno sostituì il padre nel lavoro? Era un emergente boss della mafia catanese e si chiamava Alfio Ferlito. Quando viveva a Milano, fu catturato con un carico di un miliardo di hashish e viaggiava in un’Alfetta blindata. Insieme al suo fidato amico, Francesco Ferrera, 46 anni, detto “u cavadduzzu”, che avevano più volte tentato di ammazzare; quella strage di Palermo, che insieme al boss Ferlito ha fatto altre quattro vittime innocenti, era quindi facilmente prevedibile, quasi tecnicamente prevista; ma allora non c’era la banca dei dati, non c’era il coordinamento, ripetevano a caldo i poliziotti e i carabinieri arrabbiati. Tutti quei morti perché nessun pensò di destinare per la traduzione di Ferlito dal carcere di Enna a quello di Favignana, Trapani, una macchina blindata, qualcosa di più resistente, pesante e sicura di quella Mercedes malandata e di proprietà di Calogero Di Lavore, che aveva in appalto il trasferimento dei detenuti dal carcere di Enna, e che proprio quel giorno si era fatto sostituire dal proprio figlio Giuseppe, aiutante giudiziario presso il Tribunale di Caltanissetta, dopo aver ottenuto un giorno libero. Eppure, con le stesse modalità e assieme ad altri tre carabinieri trucidati un altro boss catanese, Angelo Pavone detto “faccia d’angelo”, fu rapito ed eliminato al casello autostradale di S. Gregorio soltanto un anno prima.
Una guerra senza feriti
Una storia criminale quella di Alfio Ferlito di tutto rispetto, ma un trasferimento nel momento sbagliato, segna la sua fine. “Bastava un coordinamento – gridano con rabbia colleghi e parenti – per mettere assieme semplicemente i ritagli dei giornali delle diverse città d’Italia, ormai base della grande organizzazione; il riferimento a quel Corrado Manfredi (stessa banda) ucciso un anno prima del delitto Ferlito alla stazione di Milano; e nel mese di agosto, Franco Romeo, trucidato in un bar di Catania; sei morti della grande strage di via degli Iris, in aprile. Una sequenza logica di fatti con morti ammazzati, che portava dritto ad Alfio Ferlito”.
E ancora. A Palermo, sul luogo dell’agguato il procuratore capo di Palermo, Vincenzo Pajno, dichiarava: “È un delitto tutto catanese”. E a Catania alcuni investigatori facevano notare, invece, come un agguato come questo si programma, si prepara prima, se si vuol fare “in trasferta” a Palermo e in pieno giorno, nel cuore di una città capitale mondiale della mafia. Ma anche a Catania i mafiosi si scannavano tra loro. Da un lato il clan Ferlito divenuto più “debole” dopo l’arresto di Alfio Ferlito a Milano, e il clan dei Santapaola, cui si attribuisce il progetto di impossessarsi del mercato catanese del traffico della droga e del racket delle estorsioni, per estendere l’influenza criminale anche a Siracusa, Enna e Messina. Quest’ultimo gruppo, secondo i rapporti di polizia e carabinieri, era già legato alle cosche mafiose palermitane della borgata di S. Lorenzo, il luogo, dove è avvenuto l’agguato contro Ferlito e la scorta. Il traffico della droga chiama quello delle armi, così come le statistiche luttuose, dove si trovano le due principali città siciliane di Palermo e Catania quasi appaiate nei record della violenza: 57 morti ammazzati dall’inizio dell’anno 1981 a Palermo e 48 a Catania.
Al proprio figlio coraggioso e martire innocente della mafia vigliacca, la città di Siracusa ha intitolato una strada nel quartiere della Pizzuta al carabiniere Medaglia d’Oro al valor Civile “alla memoria” Salvatore Raiti, vittima della mafia.
Concetto Alota